Il 10 maggio 1975 era una domenica. Di quelle dolci, di quelle che disegnano una giornata dall’aria evocativa, di quelle da ricordare. I miei sedici anni erano spalmati tra la scuola, gli amici, il calcio e la formula uno e le automobili rappresentavano, per me l’universo della perfezione, adrenalina pura. Correre per vincere significava migliorare, raggiungere un traguardo prima degli altri. Se seguivi un’auto però poteva capitare di vincere o perdere. O arrivare secondi. C’è una pista, ormai storica, dove è difficile vincere, dove è difficile perfino arrivare. In alcune occasioni il traguardo lo tagliavano meno di dieci auto. Una pista d’altri tempi, quando il motore correva tra i rumori e la passione. Una pista assurda e bellissima, tra le curve e il mare. Montecarlo. Perchè poi le cose si vanno a vedere. Per capire e per annusare quei momenti. Ci andai tardi, da grande, a provare il circuito con la mia auto, a provare a disegnar ele stesse curve che faceva e continua a fare la rossa. Perchè a Montecarlo l’anima non è solo quella del pilota ma, soprattutto, dell’auto: del motore, dei meccanici, di chi osserva e spera. Non si vince sempre a Montecarlo. E non si vince facile. Il 10 maggio 1975 il televisore era in bianco e nero ma la rossa la riconoscevi sempre. Comunque. Perchè sapeva danzare in maniera diversa. E quel giorno vinse: erano vent’anni che non ci riusciva. Dal 1955. Ci voleva Niki Lauda e i miei occhi gonfi di lacrime e di allegria a tagliare quel traguardo.
07:00 , 10 Maggio 2015
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