Le parole hanno un senso. Di questo ne era profondamente consapevole un intellettuale lucidissimo , forse il più grande del novecento: Pier Paolo Pasolini. In un articolo contenuto su “scritti corsari” , nel 1974 (uno dei miei libri sul comodino) Pasolini si sofferma su due parole, apparentemente vicine e, come dire, ottimistiche e positive: Sviluppo e progresso. Si chiede, in premessa, se le due parole siano da considerare dei sinonimi o se siano due fenomeni diversi che si integrano necessariamente fra di loro o, ancora, se indicano due fenomeni “opposti” che, solo apparentemente, coincidono e si integrano. Da queste premesse Pasolini ci accompagna in un viaggio molto interessante che seppure dobbiamo filtrare con gli occhi dei giorni nostri (sono passati quasi quarant’anni) ci porterà a comprendere alcune prese di posizione e polemiche che hanno alimentato la politica di questi giorni, soprattutto la politica sarda, alla luce della recente alluvione e conseguente disastro dovuto, essenzialmente alle scelte scellerate degli uomini (uomini, ahimè, comunque sardi). La parola “sviluppo” – secondo Pasolini – ha una rete di riferimenti che riguardano un contesto di “destra”. Pasolini sostiene, infatti, che a volere lo “sviluppo” è colui che ha ragioni di un immediato interesse economico e quindi ha interesse a produrre beni “superflui” da immettere sul mercato e rivenderli e chi acquista questi beni è un “consumatore d’accordo nel volere lo sviluppo perché per essi significa promozione sociale e liberazione”. Il progresso, invece, lo vogliono – sempre secondo Pasolini – “coloro che non hanno interessi immediati da soddisfare” e lo vuole quindi, chi lavora e dunque è sfruttato.” Il progresso è una “nozione ideale là dove lo sviluppo è un fatto pragmatico ed economico.” Ricordo queste cose perché sono importante anche se, lo capisco, rischiano di essere complesse nei passaggi e nei ragionamenti, ma necessarie per comprendere quello che oggi è accaduto e che nasce dalle parole che divengono scelte politiche. Perché di questo si tratta: si può sostenere lo sviluppo a tutti i costi o, come si dice oggi, con una correzione ideologica quasi naturalistica “sostenibile”, oppure si può scommettere tutto sul “progresso” anche se (e lo ricorda sempre Pasolini) a quanto pare non è concepibile un vero progresso se non si creano le premesse economiche necessarie ad attuarlo. Subito qualcuno potrebbe obbiettare che questa differenziazione oltre ad essere ideologica e di parte è superata dagli eventi. Ne è convinto anche Pasolini nell’articolo del 1974, cancellando le false ideologie e schieramenti e mettendoci davanti ad un’atroce realtà: la destra sostiene lo sviluppo e lo mantiene ogni qual volta è al potere. Oggi si direbbe che fa cose di destra, lecite per carità, ma di destra. Il problema è però un altro: la sinistra che vuole il ”progresso” per governare accetta “lo sviluppo” e, soprattutto accetta questo tipo di sviluppo stigmatizzato da Pasolini come industrializzazione totale. Certo, le cose sono cambiate, i muri sono crollati e parlare di tecnologia borghese oggi fa senz’altro sorridere ed è sicuramente un modo di vedere le cose probabilmente superato. Ma non è superata l’analisi lucida dell’articolo dell’intellettuale scritto – lo ricordo – nel 1974. Da anni, in qualche modo, soprattutto nelle realtà locali abbiamo assistito a governi di destra o di sinistra (meglio: di centro destra e centro sinistra) ed ognuno di essi ha parlato di sviluppo del territorio. Magari qualcuno di sinistra si è soffermato sul progresso e sull’essere progressista e non conservatore. Di fatto però, quello di sinistra (o di centro sinistra) quando ha potuto governare si è comportato proprio nello stesso modo di Lenin che, dopo una campagna all’insegna del progresso, una volta ottenuta la vittoria nella rivoluzione, ha cominciato a parlare di grandioso “sviluppo” di un paese sottosviluppato. Insomma, ho letto e riletto le parole scritte da Pier Paolo Pasolini e mi è sembrato giusto parlare da queste premesse per poter concludere un semplice ragionamento perpetrato da tutti in questi anni nel nostro paese, nella nostra regione, nei nostri comuni: si è parlato di sviluppo e in nome di questa parola si è costruito dove non si doveva e poteva costruire, ci sono stati i condoni per permettere lo sviluppo del paese, abbiamo privatizzato (e continuiamo a farlo) per ottenere lo sviluppo, continuiamo a discutere di sottosviluppo e contrapponiamo lo sviluppo equo, sostenibile (a mio parere, sviluppo sostenibile è un ossimoro). Nessuno, insomma, parla più di progresso, del concetto di progresso, di quel voler progredire partendo dalle cose costruite in precedenza. Noi, confondiamo le parole e anziché provare a comprenderle e soffermarci, ci riempiamo la bocca di concetti poco conosciuti e deleteri: in nome dello sviluppo abbiamo costruito nei fiumi, abbiamo allargato le città abbandonando i centri storici, abbiamo costruito sulle spiagge, sui fiumi, abbiamo elevato autostrade deturpando il paesaggio, tutto per rincorrere uno sviluppo che oggi si scopre insostenibile. Abbandonando quel progresso fatto di piccoli passi, di attenzione alle cose. Si progredisce se si conosce, e si mantiene se si è progrediti in maniera dolce e non selvaggia. Il progresso è dedicato al futuro con gli occhi del passato, lo sviluppo è la velocità senza radici. Dovremmo cominciare a soffermarci sulle parole e sui concetti. Dovremmo cominciare a chiedere a chi ci governa cosa intende fare di noi, del futuro dei nostri figli: vuole lo sviluppo o vuole il progresso? E in base a questo dovremmo cominciare a scegliere. Dovremmo ritornare alla politica, a quella seria. Non è più il tempo degli slogan o delle parole macinate e rigettate in un palco. Non è più il tempo dei sorrisi e degli imbonitori. Le parole hanno un peso e determinano le scelte e il futuro e decidono il colore del nostro orizzonte. Non dimentichiamolo.
Giampaolo Cassitta.