Aveva sistemato il pallone con molta attenzione. Lo aveva sfiorato, accarezzato quasi, con quelle mani piccole e rotonde, assolutamente inutili per suonare uno strumento. Ma a Refik questo non interessava. Lui aveva un altro obiettivo: dare un calcio a quel pallone. Ma non era solo quello. Quel pallone doveva aggirare la barriera e con la forza iniziale doveva salire e poi, tranquillamente, abbassarsi. Una traiettoria. Una semplice traiettoria. Dall’altra parte Mochè attendeva. Non sapeva quando Refik avrebbe calciato, sapeva però che ci avrebbe messo tutto il suo impegno per scavalcare la barriera, tutta la sua attenzione, avrebbe dosato tutta la sua forza, avrebbe inspirato a lungo e preso una breve rincorsa per poi dare il calcio, quello giusto, quello esatto a quel pallone. Mochè lo sapeva e conosceva la precisione balistica di Refik. Sapeva, perfettamente, che quel tiro era nelle corde del suo avversario, sapeva che l’aveva provato molte volte. Anche Refik aveva la consapevolezza di essere all’altezza di quel tiro. Aveva in tasca una vecchia figurina di Maradona e una, meno sgualcita, di Messi. I suoi santi attendevano inermi, in tasca. Ma lui sapeva come calciava Maradona e come riusciva ad aggirare le barriere Messi. Lo aveva visto molte volte in televisione, quando a casa sua c’era ancora la televisione, prima della guerra, prima di tutti i morti, prima che tutto finisse terribilmente nel silenzio ottuso che solo gli adulti sanno costruire. Mochè, da parte sua, viveva con un’adrenalina terribile: paura che Refik ce la facesse e, nello stesso tempo, che il pallone potesse non riuscire a saltare quella barriera.
Refik si guardò intorno e non aveva occhi con cui confrontarsi. Lui e il pallone. E le figurine di Messi e Maradona. “Devo farcela”, diceva, “Adesso il tiro arriva in alto e supera la barriera e Mochè non la prende.”
Accarezzò ancora il pallone. Guardò davanti quella barriera che nascondeva l’orizzonte. Respirò con forza, molte volte. Prese la rincorsa. E tirò.
Quel pallone si impennò. Salì in alto, molto in alto e incredibilmente superò la barriera Refik osservava quel volo verticale e attese che la sfera ruzzolasse verso Mochè. E attese. Sino a sentire un urlo molto nitido: “Fuori”. Mochè, infatti, corse verso il fossato a raccogliere il pallone che Refik aveva lanciato dalla sua parte, Betlemme, contro il muro. Il pallone aveva saltato quell’ammasso grigio di cemento armato alto otto metri ma era rimasto sul fossato. Non era riuscito ad arrivare a Mochè, in una zona di terreno segnata e delineata, un quadrato abbastanza grande, ma lontano. Messi e Maradona non l’avevano aiutato. Refik si mise le mani in tasca e tocco le figurine. Adesso era il turno di Mochè. Si posizionò e attese che il pallone ritornasse indietro e saltasse oltre il selciato. Osservava il muro e con un mezzo sorriso prima di urlare “tira, sono pronto” pensò che questa era una partita stupida, che i bambini non la potevano più giocare. E se ne andò senza neppure salutare. Nel calcio, il pallone deve superare la barriera, è vero ma, subito dopo quel muro si sfalda e sparisce. Qui, invece, neppure Maradona e Messi riuscirebbero a vincere. Qui, da queste parti, le partite non hanno regole e le giocano i grandi, uccidendo i bambini. Refik palestinese e Mochè israeliano, ogni giorno si trovano davanti una barriera di otto metri. E per entrambi l’orizzonte si ferma. Uno vede il sole nascere dal muro, l’altro lo vede tramontare. Hanno imprigionato e ucciso tutto da queste parti. Anche il diritto di giocare.