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Quell'assassino è mio figlio.

Quell’assassino è mio figlio.

Sono il padre di un assassino. Non me ne vergogno e non posso pentirmi di ciò che ha fatto mio figlio. Ha compiuto un’azione orribile, indicibile, inumana. Lo so. Un gesto enorme, cattivo, perfido, che mi ha lacerato il cuore, i muscoli del viso, gli arti, e mi ha mozzato il respiro. Non mi pento di averlo amato infinitamente, come si ama un figlio. L’ho amato fin dai primi giorni, da quei suoi sguardi obliqui, quel sorriso accennato, quella disperazione che mostrava nel cercare un posto dentro questo mondo. I suoi primi passi, le sue prime parole, le sue braccia che mi cercavano, la sua voglia d’abbracciarmi. Era bellissimo, unico, indescrivibile. Aveva tutti i colori dell’arcobaleno. Ora è dentro una storia senza pennellate di vita: tutto è nero. Il cuore sanguina e sporca il futuro, e c’è il rischio che debba passare la sua vita in una galera. Come è giusto, per carità. Ma è mio figlio. Lo stesso figlio che ho difeso dai bambini più vispi che lo schernivano, lo stesso mio figlio che ho incoraggiato davanti a risultati scolastici non troppo eccelsi. Lo stesso figlio che ho ripreso quando rientrava tardi la sera. È lo stesso figlio che ho aspettato sveglio, di notte, con la speranza che non gli fosse accaduto nulla di grave. È vero: la cosa terribile è sopravvivere ai propri figli. Ma lui, assassino, responsabile di un reato infame, è come sepolto vivo. E deve sottostare a tutto questo, deve espiare, deve comprendere. Ed è giusto, sacrosanto. Non discuto. Ma è mio figlio.

Devo incontrarlo proprio fra qualche ora. Un colloquio in carcere dopo mesi di assenza, dopo che ho perduto il ricordo del suo sguardo. L’ho visto in televisione, nel momento del suo arresto. Pareva più magro. Forse aveva bisogno di una parola, forse cercava una risposta. Forse aveva paura. Assassino tra i peggiori assassini, nessuno gli regalava neppure una goccia di pietà. Anche io, se fosse stato uno sconosciuto, avrei reagito come tanti: “Uccidetelo, non merita nulla, e uccidete tutta la sua generazione”. Lo avrei fatto, forse. Per un momento di rabbia, di debolezza, di cattiveria gratuita. Lo avrei fatto, come tanti, come troppi. Come tutti. Ma lui è mio figlio.

Mi sono messo in tasca una serie di parole. Sarà stanco, sarà terrorizzato. Ho sempre ascoltato le sue giustificazioni, le sue incertezze, le sue fantasie. Non parlava molto, come tutti noi in famiglia. Ho sempre enfatizzato l’eleganza nei gesti, ed è per questo che sto male. Per quel suo gesto maledetto, bastardo, impossibile da comprendere e giustificare. Non ho intenzione di perdonarlo, anche perché non è questo il punto. Sono sicuro che non proverà neppure a spiegarsi, a trovare soluzioni fantasiose e inutili. Non le accetterei. Ho paura per lui. Come un padre ha timore per ciò che possa capitare al proprio figlio. Come tutti i padri di questa terra che amano i propri figli. Non è difficile da spiegare, forse è difficile da comprendere. Non so.

Sono seduto su questo tavolo color crema stinto. Mi hanno detto di aspettare. Il tempo, in carcere, è una concezione quasi inutile, almeno per questa mia prima esperienza. L’unica cosa che sanno dire è “Aspetti”. Mi hanno guardato male. Eppure non ho commesso nessun reato. Voglio soltanto parlare con mio figlio. È un mio diritto e un mio dovere. Anche loro, credo, hanno dei figli e anche loro regalano alla carne della loro carne amore. Eppure li sento lontani, diffidenti, quasi contrariati. Vorrei dire a tutti quanti: “È mio figlio”, ma non lo faccio.

Aspetto. Arriva con le mani in tasca. È leggermente spettinato. Si guarda intorno, guardingo. Probabilmente è stato minacciato. Ha commesso un delitto infame e, come tale, è considerato. Questo lo so e, vedendolo, con i suoi lenti gesti, lo percepisco. È distante, barcollante, riluttante. Ha dentro tutta la solitudine del mondo. È mio figlio.

Lo abbraccio leggermente, come se fossimo al limite del lecito. Ci sediamo mentre l’agente si allontana. Siamo soli con le parole in tasca e senza produrre gesti. Rimaniamo così, per un tempo eterno, perché in carcere il tempo non cammina.

Gli chiedo come sta, se sta mangiando, se ha bisogno di qualcosa. Risponde a monosillabi, con gli occhi nascosti che osservano i piedi di quel tavolo in formica. Ho paura. Paura che non ce la possa fare ad andare avanti. Potrebbe farla finita, potrebbe decidere di scendere alla fermata della stazione dei suicidi. Non so. Lo guardo e non riesco a dire quasi nulla. Solo poche parole: “Devi farti coraggio. Non sei l’unico ad affrontare questo viaggio. Hai ucciso una persona e devi essere forte. Ti condanneranno, questo è certo. Ma io ci sarò sempre. Io sono tuo padre e tu, per me, non sei un assassino, sei mio figlio”.

Ci lasciamo con la promessa di un prossimo incontro. Lo rincuoro, gli dico che quel gesto, quel maledetto gesto, era la cosa peggiore che potesse fare. Ma, in ogni caso, non si torna indietro. Avrò un ragazzo senza cuore, senza occhi, senza arti. Vedrò un uomo crescere tra le mura di una fredda e brutta stanza. Non potrò mai giustificarlo e neppure perdonarlo. 

Ma amarlo sì. Perché comunque, in ogni caso, è e sarà sempre mio figlio.

12:03 , 31 Luglio 2024 Commenti disabilitati su Quell’assassino è mio figlio.