Vi parlo di Bibbiano. (un racconto lungo).
Ci sarà un giorno, magari non molto lontano, in cui ci si siederà sulla panchina delle riflessioni e si proverà a rispondere ad un’angosciosa domanda: perché, ad un certo punto è stato deciso che Bibbiano doveva diventare un caso mediatico nazionale?
Perché è stato deciso di creare il mostro, perché molti sono caduti in questa terribile trappola mediatica? Perché abbiamo utilizzato i bambini e i bambini, si sa, sono il grimaldello per aprire tutti i cuori, anche i più ruvidi. Un po’ come le immagini che girano sui social relativi ai gattini e cagnolini. Il morbido incute tenerezza e amore e il cucciolo è il morbido per antonomasia. Non si spara sul cucciolo e chi lo fa viene subito distrutto, vilipeso, insultato, messo alla gogna mediatica. Il bambino è stato lo strumento terribile utilizzato per costruire questa grandissima bolla mediatica dove per mesi la frase categorica è stata: “parlateci di Bibbiano”. Uno slogan costruito ad arte da chi sa gestire molto bene la pancia della gente, da chi riesce, con pochissime e decise parole, a creare un cortocircuito perfetto: una tempesta terribile, un congegno che una volta innescato non potrà fermarsi.
Così, in un attimo, Bibbiano è diventata l’immagine maledetta di una storia dai contorni sanguinolenti ma utilizzati con la dose che Stephen King usa per scrivere i suoi libri: con calma, con frasi monche, con rimandi, con supposizioni, con parole che facevano presagire un assassino dietro la prossima pagina ma che, con astuta regia, quell’assassino non si presentava mai. Una dose massiccia di “attesa”, di “suspence”, una sceneggiatura costruita ad arte da geni della sceneggiatura che farebbero impallidire il buon Hitchcock: da quella falsa finestra sul cortile è stata montata una storia che, a dire il vero, ha dei contorni molto poco chiari.
Non è importante stabilire chi ha torto e chi ha ragione, chi è innocente e chi è colpevole. Si tratta di stabilire una linea di demarcazione tra ciò che è realmente accaduto attraverso la lettura dell’ordinanza del Giudice per le indagini preliminari e tra ciò che, invece, è stato venduto per vero o per verosimile che, per i maestri delle bolle mediatiche è la stessa cosa.
Bibbiano è divenuto soprattutto un caso politico dove la politica non c’entrava assolutamente nulla. Facciamo un piccolo esempio: poniamo che il sindaco della Lega o di Forza Italia o di Fratelli d’Italia del paese immaginario di Roccabuiedda sia convinto che un’associazione di pittori che dipinge paesaggi e immagini culinarie e che coinvolge alcuni minorenni del paese, possa essere un buon viatico per promuovere le bellezze della zona e i prodotti del suo piccolo borgo. I piccoli pittori sono bravi, sono sinceramente convinti di riuscire nel dimostrare quanto Roccabuiedda possa diventare tra i paesi più pittoreschi d’Italia, perché attraverso l’arte della pittura si raggiungono ottimi risultati anche a livello pedagogico. E’ un bel progetto e serve, a questo punto, una sede per i piccoli Picasso e il sindaco, convinto della bontà dell’operazione, decide di concedere un piccolo appartamento del comune di Roccabuiedda in affitto a quell’associazione che si occupa di pittori minorenni. Lo fa non seguendo pedissequamente il codice degli appalti e commettendo, secondo l’accusa, una serie di reati. Si scopre poi, dopo accurate indagini, che i ragazzini venivano maltrattati e vessati da due adulti dell’associazione. Entrambi saranno rinviati a giudizio e dovranno rispondere di maltrattamenti a minori Ecco: quel sindaco di qualsiasi partito sarà probabilmente rinviato a giudizio e dovrà rispondere del reato di peculato. A nessuno, in nessun luogo al mondo, verrà in mente che il sindaco era complice nel maltrattare i bambini. Nessun giornalista potrà costruire questo assurdo nesso, semplicemente perché è assurdo.
A Bibbiano, incredibilmente è accaduto questo. Un sindaco diventa, di colpo, torturatore di bambini, complice di un qualcosa orribile e inenarrabile: elettroshock, costrizioni nei confronti di minori per “vendere” i bambini a coppie amiche e accondiscendenti. Un presunto reato amministrativo si è trasformato in uno scenario apocalittico. Come nei peggiori b-movie o, se vogliamo, come nei perfidi melodrammi all’italiana.
Un giorno, davvero, saremo costretti ad interrogarci su questi errori che, beninteso non hanno commesso né l’accusa e né tanto meno la difesa. Uno sceneggiatore terzo ha deciso che una semplice storia di paese che avrebbe meritato al massimo due colonne sui giornali di provincia divenisse la narrazione da prima serata che tutti volevano conoscere: “parlateci di Bibbiano”.
Lo hanno chiesto con insistenza per mesi. Si sono catapultati quelli di Casa Pound a Bibbiano, giornalisti di molte testate si sono precipitati a Bibbiano e tutti dovevano rispondere alla fatidica domanda: “parlateci di Bibbiano”. I silenzi venivano intesti come attestazione di colpevolezza, il diniego della libertà al sindaco e la conferma degli arresti domiciliari diventavano prova di inconfutabile colpevolezza.
2
Nel 1985 ebbi la fortuna di conoscere Enzo Tortora. Lo incontrai, per la prima volta, all’Asinara, dove venne come deputato europeo del partito radicale a conoscere il capo della nuova camorra organizzata Raffaele Cutolo. Il suo incontro era intriso di sana curiosità: voleva capire come era riuscito a finire in un vortice terribile che lo aveva portato in carcere e che solo dopo molti anni il suo calvario si sarebbe concluso con un’assoluzione piena per non aver commesso il fatto. Enzo Tortora finì, anche se i social non esistevano e gli hater non avevano a disposizioni una tastiera su cui intingere d’odio quotidiano il malcapitato di turno, in un tritacarne terribile e assolutamente disumano. La gente si poneva la stessa domanda: “Qualcosa deve averla pur fatta se è finito in carcere”.
Ecco, a quei tempi la macchina del fango utilizzava altre parole e altri binari ma il risultato era essenzialmente lo stesso. La buttarono anche in politica, nonostante Enzo Tortora fosse un presentatore – liberale e libero – non collocabile all’interno di nessun partito. Eppure, anche nel 1985 aleggiava, nei silenzi di quell’inchiesta, la famosa domanda: “parlateci di Tortora”.
Quando ci ritrovammo, ad Alghero, in un ristorante di un comune amico, lui in una lunghissima chiacchierata assolutamente informale mi confidò che aveva paura, terribilmente paura della gente che non era in grado di conoscere l’intera storia. E aggiunse che aveva paura anche di se stesso: “Neppure io riesco a capire i contorni di tutto. Leggo e rileggo pagine su pagine ma, davvero, in base a quello che c’è scritto, mi condannerei all’ergastolo. So che non è così, ma ho capito che lo devo dimostrare”.
“Hanno creato un mostro”, disse ad un certo punto.
Lo disse a bassa voce, lo disse con la consapevolezza che la questione fosse grave e lo disse con la convinzione che lui non poteva assolutamente farci niente.
Scrisse due libri sulla vicenda, in uno mi scrisse, dedicandomelo: “per chi capisce la sofferenza e per chi è curioso di conoscere la verità”. La sua completa estraneità ai fatti non servì a molto. Per molti era rimasta una macchia indelebile: forse non era Caino ma non poteva essere quell’Abele che voleva dipingersi. Ritornò, con cocciutaggine, in televisione perché era la sua vita, il suo mestiere. Le prime parole che disse, al suo rientro furono: “Dove eravamo rimasti?” Non servirono. Furono in pochi a comprendere il senso di quella frase, furono in tanti a passare oltre, come se niente fosse successo.
“Dove eravamo rimasti” è una bella interlocuzione anche di questi tempi dove nessuno si guarda indietro per provare a capire il perché di quelle macerie che si intravvedono in lontananza.
Su Enzo Tortora si scrissero pagine oscure, terribili e indegne. Furono davvero in pochi a credere, da subito, alla sua innocenza. Non servì la schiettezza del suo raccontare, la passione del voler puntualizzare, la terribile verità che si celava dietro i falsi pentiti che lo accusavano.
“Hanno creato un mostro attraverso dei centrini di uncinetto”.
Non c’era nessuna prova, solo indizi. Ma tutto questo, nella fase iniziale, non servì assolutamente a nulla. A qualcuno giovava, in quel momento, quell’orribile commedia.
La creazione di mostri è sicuramente guidata da alcuni che hanno interesse a far salire sul palco il Caino di turno ed è assolutamente necessaria per un certo tipo di narrazione. Sono state costruite moltissime trasmissioni che hanno fatto la fortuna delle reti televisive. Trasmissioni che hanno scommesso solo ed esclusivamente sul “mostro di turno”: lo hanno inseguito, vivisezionato, accusato, crocifisso, gettato in pasto a dei testimoni che lo hanno dipinto come “strano”, come “cattivo”, come “colpevole a prescindere” e poi, senza neppure chiedersi come ci si sente ad essere “mostro”, ad essere accusato di un delitto per il quale la verità si dovrà stabilire comunque in un tribunale, ecco che la fabbrica di Caino va subito alla ricerca di un’altra storia da spremere, un altro mostro da mostrare. Sono i serial costruttori di vicende gonfie di sangue e ovvietà, poca verità e molto pathos: tutto questo fa presa su quel popolo per il quale i giudici, in un’aula di tribunale prenderanno una decisione che, ovviamente non collimerà con quanto la trasmissione e gli estimatori avevano immaginato. Sembra quasi che le sentenze siano emesse in nome dei magistrati e non, come previsto dalla legge, in nome del popolo italiano.
Questo è un altro problema grossissimo. Non sapendo assolutamente nulla o comunque molto poco delle dinamiche processuali il popolo si costruisce un proprio processo, molto sommario a dire il vero, ed emette una sentenza che deve essere quella e nessun’altra.
Ho lavorato in carcere a contatto con i detenuti per moltissimi anni. Devo dire che sono i peggiori giudici che vi possano capitare: nei confronti degli altri emettono sentenze terribili senza conoscerne neppure i contorni. Le persone accusate – ripeto: accusate – di violenza sulle donne o sui bambini – vengono subito isolate perché la sentenza della sezione del carcere sarebbe terribile: violenta e definitiva. Sarebbero degli ottimi leoni da tastiera e, purtroppo, diversamente dagli hater che utilizzano solo veleno virtuale, sono capaci di eseguire la sentenza e purtroppo molte volte è capitato.
Verso la fine degli anni novanta mi sono occupato di un detenuto accusato di una violenza carnale a sua figlia che ha tentato il suicidio. Lo ha fatto dopo una settimana che viveva da solo in una cella e non usciva per paura di rappresaglie all’ora d’aria. Mi disse subito che lo aveva fatto perché aveva paura non degli altri detenuti ma di quanto era stato montato nei suoi confronti. Non avrebbe retto ad una condanna che riteneva assolutamente ingiusta e vergognosa in quanto si proclamava innocente. E lo era. In tribunale si scoprì che l’accusa era stata architettata dalla moglie che aveva costretto la ragazzina tredicenne di accusare il padre di un reato che non aveva assolutamente commesso.
Quando uscì dal carcere piangeva ma non di felicità. Era convinto che la gente non avrebbe capito e lo avrebbe ritenuto colpevole comunque. Si suicidò dopo qualche anno.
Non resse agli sguardi e ai silenzi di chi lo osservava e con insistenza gli chiedeva, anche senza domandare “parlami di tua figlia”.
3
Ci sono due storie che sono accadute alla fine di settembre del 2019 e che, almeno apparentemente, non hanno nessun nesso tra di esse ma ci dicono, invece, ciò che siamo diventati e come utilizziamo le notizie. Prendiamo come esempio (ma tutti i quotidiani collocano le notizie più o meno nello stesso modo) La Repubblica del 26 settembre 2019. In prima pagina campeggia un titolo a otto colonne “Droga capitale” ed è legato all’omicidio accaduto qualche giorno prima a Roma: un giovane, Luca Sacchi, era stato ucciso con un colpo di pistola perché si era ribellato al furto di uno zainetto ai danni della sua ragazza. Le reazioni – quasi sempre scomposte e poco inclini all’attesa – condannavano ovviamente l’omicidio considerando il povero Luca una sorta di eroe immolatosi a difesa della propria fidanzata. Qualche politico si era subito arrogato il diritto di buttarla, appunto, “in politica”, accusando il governo di non fare nulla per la sicurezza del paese e della sua capitale che pareva paragonabile all’oscura Gotham City, luogo simbolico della violenza e del degrado.
Le cose – sempre ovviamente – non stavano così: Roma non è la città dove impera il criminale Joker e la verità è, probabilmente, diversa da come è stata narrata finora.
Fin dalla prima pagina Repubblica aggiunge al titolo “strillato”, un occhiello che spiega quello che forse è accaduto al povero Luca Sacchi: “Non è stato lo scippo di uno zainetto a provocare l’omicidio di Luca Sacchi ma un acquisto di stupefacenti finito male. Arrestati due ventenni. La madre di uno di loro li ha denunciati alla polizia: “Meglio in cella che tra un pusher”. [1]
Leggendo l’articolo di Maria Elena Vincenzi, in seconda pagina, si apprende che “La fidanzata ha mostrato duemila euro nello zaino e i giovani che vendevano l’hashish hanno deciso di rapinarla. Poi la colluttazione e lo sparo.”[2]
La notizia non toglie nulla all’atrocità della morte di un giovane ragazzo e all’assurdità del gesto però sposta – e non di poco – le migliaia di messaggi sui social contro, per esempio, la sindaca Raggi, il governo retto dal Presidente del Consiglio Conte, il Ministro dell’interno Luciana Lamorgese, tutte le richieste di portarsi in tasca un’arma per difendersi e difendere le proprie donne (proprio così: “le proprie donne”) e distrugge tutta la retorica sull’eroe contro i cattivi che, purtroppo per questa ondivaga platea non erano “extracomunitari” o, peggio “negri”.
Una storia tutta italiana e tutta ancora da scrivere con la verità che dovrà essere ricostruita nei prossimi mesi e che dovrà tener conto di tutta una serie di elementi che nell’immediatezza non sono stati analizzati.
La seconda storia è vecchia di un anno rispetto a quella dell’omicidio accaduto a Roma.
E’ il 17 ottobre del 2018 quando un uomo di 30 anni che lavora presso una ditta di pulizie è fermato dalla polizia e arrestato con un’accusa terribile: violenza carnale ai danni di una connazionale. La violenza sarebbe stata consumata qualche giorno prima, esattamente il 7 ottobre.
L’uomo, a seguito della denuncia della donna finisce in carcere e seppure si proclami completamente estraneo ai fatti deve attendere il processo che è fissato per il 25 ottobre. Un anno dopo. L’imputato, in realtà, oltre a ritenersi innocente, prova a chiedere – pare inutilmente – di sentire anche un’altra donna presente ai fatti accaduti a Milano, nel parco Lorenteggio, vicino alla Vodafone. Quella sera dopo qualche birra, due peruviani palpeggiano e molestano sessualmente la donna e uno di questi – l’imputato – finisce per violentarla.
La ragazza si reca in commissariato e fornisce l’identità del violentatore. I nostri eroi, gli hater, quelli che sanno sempre come vanno le cose, subito chiedono di sciogliere la chiave per quell’uomo, sperano che possa ottenere lo stesso trattamento dai detenuti in carcere anche se la canea non dura moltissimo. D’altronde è una storia che interessa due peruviani. Che se la vedano loro.
Il processo racconta invece un’altra verità. E a farlo è proprio la ragazza, testimone oculare dei fatti che ribadisce la versione sempre ribadita dall’imputato: la donna si è picchiata con un’altra connazionale per problematiche relative ad altri fatti.
La presunta vittima viene pertanto contro interrogata e ammette di essersi inventata tutto. Il presunto violentatore viene assolto e subito scarcerato. Peccato che, nel mentre, proprio per via di questa accusa infamante, gli era stato revocato il permesso di soggiorno. Il quotidiano La Repubblica posiziona la notizia a pagina 25.[3] Per questo secondo caso non vi sono reazioni emotive da parte della rete globale. Nessuno ha commentato, nessuno si è sentito in dovere di chiedere scusa a nome di chi aveva chiesto per il peruviano innocente lo scioglimento della chiave della cella dove era stato ingiustamente detenuto.
Che cosa è accaduto presso il Tribunale di Milano? Ce lo spiega, magnificamente, Luigi Ferrajoli: “ Se la giurisdizione è l’attività necessaria per raggiungere la prova che un soggetto ha commesso un reato, fino a che tale prova non sia stata raggiunta mediante un regolare giudizio, nessun reato può essere considerato commesso e nessun soggetto può essere ritenuto colpevole né sottoposto a pena”.[4]
E’ accaduta, dunque, una cosa semplicissima non contemplata nell’universo social: “la presunzione d’innocenza” dell’imputato che deve rimanere tale fino alla prova contraria che deve essere sancita da una sentenza definitiva di condanna.
Fateci caso: nel caso Bibbiano ci si è subito schierati tra colpevolisti (molti) e innocentisti (pochi); per la morte di Cucchi tutti erano convinti che si trattasse di un pestaggio in carcere ad opera di detenuti o poliziotti penitenziari; il ragazzo morto a Roma è stato prima considerato un eroe, paladino difensore della fidanzata e poi le indagini raccontano altro; infine il peruviano innocente era stato abbondantemente condannato da tutti.
Dovremmo far tesoro di ciò che è già accaduto, dovremmo cominciare a comprendere che il giudizio non si basa sull’umore e non è ciò che molti telefilm americani ci fanno credere quando il buon poliziotto ci racconta che lui sa riconoscere i delinquenti: da uno sguardo, da una parola, da un gesto.
La giustizia non è un atto istintivo e occorre stare molto attenti a chiedere condanne sommarie perché “quando l’innocenza dei cittadini non è garantita, non lo è neppure la libertà”. [5]
[1] “La Repubblica” titolo di prima pagina. Articoli di Maria Elena Vincenzi, Paolo G. Brera, Rory Cappelli. Edizione del 26 ottobre 2019.
[2] La Repubblica, ibidem, pag. 2
[3] La Repubblica, 25 ottobre 2019 “Un anno in carcere per violenza. Poi lei ritratta: assolto e rilasciato. Di Ilaria Carra, pag. 25
[4] Luigi Ferrajoli, Diritto e ragione, teoria del garantismo penale, Laterza, 2009, pag. 559
[5] Charles L. Montesqueiu, Lo spirito delle leggi, UTET, pag. 431
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