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Report e la verità (La Nuova Sardegna, 22 aprile 2017)

Ci sono persone che hanno una visione distorta delle cose perché quelle cose non le conoscono. E’ un po’ come avere paura di luoghi o  persone mai viste.
Una delle domande cui devo rispondere frequentemente è legata al carcere: come si vive, come vengono trattati i detenuti, i rapporti tra loro e gli operatori, se è vero che ci sono episodi di violenza, suicidi, topi che transitano, orrore. Alcune di queste persone aggiungono che molte cose le hanno apprese dai giornali o le hanno viste in televisione.
Quando provo a spiegare quel mondo che, sotto alcuni aspetti è abbastanza normale, qualcuno non si fida, prova a ribattere e conclude che in televisione hanno mostrato un’altra verità.
Mi ha sempre affascinato la possibilità che si potessero vedere le cose da molte angolazioni e sono sempre stato attratto dalla tridimensionalità delle storie: un luogo rimane un luogo quando lo vedi per immagini, diventa tuo solo quando lo visiti. Sono cresciuto con TV7, il rotocalco della prima rete televisiva, ho amato Odeon, il primo magazine a colori di Rai2 e ho seguito Samarcanda, Milano Italia, Report e Presa Diretta.
Tra i documentari che ho amato moltissimo rientra senza dubbio “Sciuscià” ideato da Michele Santoro e le interviste di Enzo Biagi.
Osservare il racconto è essenziale per provare a capire la realtà: il montaggio del giornalista è, chiaramente, il suo punto di vista. Se io visito il carcere di Poggioreale, a Napoli, provo ad osservare come sono stati divisi i detenuti, in quali padiglioni e racconterò questa storia. Un’altra persona attratto dalle urla nella sezione scriverà che il carcere di Poggioreale è un mondo terribile e invivibile. Abbiamo visto le stesse cose ma abbiamo deciso di dare un taglio diverso perché i nostri occhi – e dunque la nostra cinepresa naturale – hanno registrato l’attualità e l’hanno trasformata in emozione.
Report è costruito in maniera molto seria.
I giornalisti ascoltano, si interrogano, intervistano, chiedono pareri. A volte li ottengono e a volte si trovano molte barriere davanti. Successivamente imbastiscono il servizio con le notizie che hanno ottenuto e tentano di essere obiettivi. E lo sono. Su molte inchieste ci hanno aiutato a ragionare. Poi, una sera, ho visto un servizio sulle carceri italiane e sul problema del sovraffollamento, un argomento che conosco benissimo. In quel caso Report non mi è stato assolutamente d’aiuto e, anzi, molte prese di posizione, molte conclusioni del giornalista mi sono apparse affrettate, poco incisive e in alcuni casi superficiali, senza nessun approfondimento. Tutto ruotava nel voler far notare le pessime condizioni delle carceri (non a caso c’era un servizio di S.Sebastiano di Sassari, ancora aperto) e delle piccole celle anguste.
Era vero? Certamente.
Ci sono ancora delle condizioni problematiche ma è anche vero che esistono penitenziari dove la qualità della vita è sicuramente diversa da quella di S.Sebastiano o di Poggioreale.
Ho capito che era la telecamera di chi vede le cose a produrre le storie.
Ho capito che quando quel luogo lo conosci, perché lo vivi, nessuna inchiesta ti sembrerà definitiva.
Scrivo questo perché il gran vociare che c’è intorno a Report è perché non si vuole  comprendere il racconto delle cose: il reportage sui vaccini per me era perfetto e avevo ben compreso che i vaccini sono importanti, ma occorre stare attenti. Chi, invece, con quel problema ci vive quotidianamente ha bollato il servizio come parziale, poco obiettivo e lacunoso. Ecco: ha raccontato un’altra verità. Il modo di osservare le cose ci costringe a narrarle in maniera soggettiva anche quando proviamo ad essere obiettivi.
Dovremmo tenerne conto più spesso.