Non siamo tutti Las Vegas (La Nuova Sardegna, 5 ottobre 2017)
Ammetto che ci ho pensato. E’ stato un attimo ma ho riflettuto a lungo sui 58 morti e gli oltre 500 feriti, una strage provocata a Las Vegas negli Stati Uniti d’America da parte di un bianco, statunitense: Stephen Paddock, un signor nessuno che deteneva regolarmente a casa un vero e proprio arsenale. Ha aperto il fuoco dal trentaduesimo piano di un hotel. Aveva 19 fucili, due dei quali con treppiede e ottica. Era, dunque, organizzato per il massacro. Ho pensato a quanto siamo rimasti sconvolti per la strage del Bataclan, a Parigi dove il 13 novembre 2015 quattro uomini dell’Isis sparano e uccidono 93 persone o a Manchester, il 23 maggio 2017, dove un kamikaze si fa saltare in aria uccidendo 22 persone. Ho pensato a Charlie Hebdo, a quando tutti, nelle bacheche dei social, abbiamo cambiato la nostra immagine per qualche giorno sostituendola con la frase “io sono Charlie” e poi l’abbiamo sostituita con la bandiera francese e quella inglese, sempre zuppa di lacrime, sangue e commozione. Ci ho pensato e ho aspettato che qualcuno cominciasse a dire: “siamo tutti Las Vegas” o modificasse la sua immagine includendo la bandiera americana. Ho atteso quel gesto di solidarietà per i morti e di condanna per chi aveva commesso quella carneficina terribile. Non c’è stato. I quotidiani hanno si parlato di una strage al concerto, di una morte giunta dall’alto ma non con la stessa enfasi con cui si era occupata nei mesi precedenti delle altre stragi, quelle di matrice islamica. A nessuno sembra interessare quello che Vittorio Zucconi su “Repubblica” ha chiamato “il grande fiume rosso che bagna l’America con il sangue dei 33 mila uccisi ogni anno da armi da fuoco”. Perché questo è il punto: il massacro americano è figlio delle scelte di quel paese dove le lobby dei costruttori di armi dettano legge in parlamento, dove è lecito girare per strade con una pistola, dove è normale che il Presidente degli Stati Uniti d’America dichiari che oggi “siamo tutti uniti nella tristezza, nello shock e nel dolore” e non dica, invece, che a uccidere, a compiere quell’immane strage, sia stato uno statunitense, un pensionato di 64 anni, il “nonno killer” come lo hanno definito subito i media americani che riescono a spettacolizzare l’orrore come nessun altro, un uomo che la polizia non è riuscita a catturare perché ha ben pensato di uccidersi dopo aver costruito quella che è stata ribattezzata come la più tragica sparatoria avvenuta negli USA. Ho atteso che i polpastrelli caldi di chi è sempre pronto a prendersela con i musulmani potesse, in un momento di estrema lucidità, condannare questo vile massacro, dire che gli USA hanno uno strano concetto di libertà rispetto a quello che maciniamo quotidianamente nella vecchia e surclassata Europa, dove non si permette ai cittadini di poter acquistare liberamente armi da guerra e detenerle tranquillamente a casa. Trump ha dichiarato che il dibattito è prematuro e viene quasi da ridere se non fossimo davanti a oltre cinquanta morti. Trump non ha una narrazione credibile su questi argomenti, così ha come osservato lucidamente Edward Luce, commentatore politico da Washington per il Financial Time.
Ho pensato che i polpastrelli caldi della rete non avessero tra le loro cartucce quella dell’andare contro al bianco statunitense che compie una strage tra gente inerme che ascoltava della bellissima musica country, perché non fa parte della loro narrazione che prevede, invece, parole di odio nei confronti di chi proviene dall’Africa o è affiliato all’Isis. Oriana Fallaci diceva che forse corrispondeva al vero che non tutti gli islamici fossero terroristi ma era comunque vero che tutti i terroristi fossero islamici. Lo scriveva dalla sua casa a New York, nel cuore della grande mela che rappresenta, più di tutti l’anima statunitense. Non aveva ragione. Perché proprio da quella nazione che lei ha eletto a culla di democrazia e libertà vige ancora la vecchia legge dell’West e tutti difendono il loro orto privato non con le parole ma con una pistola bene in vista. Una volta si diceva che la democrazia statunitense sia giovane e ha una narrazione diversa da quella europea. Ha, però, una sua logicità. Come affermava Giorgio Gaber: “sono così coerenti che anche nei film sui manicomi riescono a metterci gli indiani”. Il mondo americano è basico: ci sono i buoni e i cattivi. Non hanno una rete narrativa complessa. Così, questa strage sarà ben presto dimenticata e questi morti piccole candele che nessuno accenderà perché uccise da fuoco amico. Ci ho pensato e mi sono sentito “Las Vegas”. Almeno per qualche giorno.