Non possiamo arrenderci ai femminicidi (La Nuova Sardegna, 4 aprile 2019)
Ci siamo ritrovati, ancora, nel cortile del dolore, ci siamo ritrovati muti e senza poter affermare niente di nuovo rispetto a quello che abbiamo sempre detto, a quello che abbiamo sempre scritto: è una questione culturale, è una questione antropologica, sociale. E’, soprattutto, una questione che ci fa male. Una rasoiata dentro le nostre piccole certezze. Ancora una donna, ancora i bambini che dovranno fare i conti con il dramma dell’assenza. Dopo Alghero è successo anche a Nuoro. Solo per restare sulla nostra isola. Non possiamo dire solo basta e non possiamo dire “mai più”. Lo sapevamo e lo sappiamo che la strada della ragione è un deserto con troppe dune e poche oasi. Dopo la morte di Romina che segue di pochi mesi quella di Michela mi è venuta in mente una strana suggestione, una notizia che apparentemente non c’entra nulla con questo orrore. Ho visto la fotografia del capodoglio trovato morto a Porto Cervo: nella pancia aveva un feto e 22 kg. di plastica. Quella foto del grande pesce assassinato rappresenta la sconfitta di un mondo disattento alle conseguenze. Buttare una busta di plastica, in fondo, non è gravissimo. Ma se lo fanno in troppi diventa letale. Chissà perché, allora, ho pensato a Romina, Michela, a Zeneb, a Louise uccisa dal marito dopo una lite. Poi l’uomo avrebbe deciso di buttare il corpo in mare. Quel mare che ci circonda e ci fa sentire forse più deboli, probabilmente più forti. Quel mare che restituisce corpi e dolore, quel mare che non lava i peccati e le ferite che, lentamente, cominciano ad essere profonde in una comunità che si ritrova senza risposte. Questi corpi violati, questa protesta solida ma non incisiva, non riesce a far cambiare il modus operandi di persone che non sanno riconciliarsi non dico con la vita ma neppure con la normalità. C’è un altro grave fatto che si unisce a questa catena di omicidi: è la morte di Stefano Leo avvenuta a Torino. L’assassino si è costituito e ha dichiarato: “l’ho fatto perché lui era felice, l’ho sgozzato perché ho pensato dovesse soffrire come sto facendo io”. Dentro questa dichiarazione c’è, forse, la chiave di quello che sta accadendo. Dentro queste parole c’è il grande solco della solitudine che attanaglia chi decide di uccidere un altro essere umano. Queste persone non riescono a dosare la loro sofferenza, non riescono a dare il giusto peso alle sconfitte, non prendono neppure in considerazione che siamo tutti perfettamente simili ma gioiosamente diversi. Non sopportano il sorriso, (un po’ come l’assassino del Nome della Rosa) non riescono a gioire delle piccole cose che accadono nella normalità quotidiana. Buttano la loro busta di plastica convinti di non fare nulla di male, coltivano l’odio dentro l’autostrada dell’indifferenza. Poi, d’incanto si svegliano e ci raccontano che non sopportavano di essere lasciati soli, non sopportavano di essere soli, non sopportavano questo maledetto male di vivere. Poi, d’incanto cominciano a distribuire narrazioni intrise di dolore e richieste di perdono, come se fosse facile sciacquare il lago di sangue che hanno prodotto. Non basta dire basta e non serve capire i gesti soltanto dopo che sono accaduti. Occorrono passaggi lenti e fermi, occorre cambiare assolutamente registro. I genitori devono cominciare ad insegnare il rispetto ai propri figli e prepararli alla cultura della sconfitta: solo chi sa perdere si può rialzare. Smettiamola di dire che un messaggio o una minaccia non porta sicuramente da nessuna parte. Non è così: si comincia, ricordiamolo sempre, buttando una busta di plastica in mare e si finisce per uccidere il capodoglio. La comunità deve cominciare a soppesare i rapporti. Dobbiamo cominciare a prendere in considerazione – seriamente – che i femminicidi accadono soprattutto in famiglia che non rappresenta più un luogo troppo sicuro per le donne e per i bambini. Smettiamola di prenderci in giro e raccontarci la favola che il nucleo familiare è l’unica risposta alla felicità. Non è così. Ormai lo sappiamo bene. Da questo errore dobbiamo partire per riflettere. Questa volta seriamente.