Non è mare fuori. A proposito dei pestaggi al Beccaria di Milano (La Nuova Sardegna, 8/5/2024)
E’ una questione di cultura, di apprendimento, di formazione. E’ un problema di ascolto, di attenzione. Lo è da anni e, purtroppo, lo sarà per molti anni ancora. Ciò che è accaduto nel carcere minorile di Milano è figlio dei tempi, di una programmazione sbagliata, di un concetto che non è stato mai condiviso: i detenuti, figuriamoci se minorenni, sono uomini e occorre salvaguardare la loro dignità. E gli uomini, figuriamoci i minori, si rispettano. Non esiste lo schiaffo educativo o correttivo. Esistono le parole. E in quel contesto ne sono state usate poche. L’ennesimo pestaggio nei confronti di detenuti inermi e, per giunta, minorenni, ci costringe ad interrogarci, ancora una volta, sul pianeta carcere. Cosa che facciamo sempre poco e male, utilizzando cannocchiali quantomeno appannati che non possono mettere a fuoco la gravità dei gesti. Dai fatti di Sassari dell’Aprile 2000, alla mattanza di Santa Maria Capua Vetere dove si sono dovuti recare il presidente del consiglio ed il ministro della giustizia per porre delle scuse a dei detenuti massacrati in maniera oscena e inutile. Cosa è accaduto al Beccaria? Non è fondamentale conoscere tutti i passaggi, come si è consumato l’atto, chi era o non era coinvolto. E’ necessario, invece, chiedersi perché. Cosa ha portato questi agenti di polizia penitenziaria, alcuni padri di famiglia, ad un comportamento indegno per un rappresentante dello Stato. Cosa è accaduto davvero tra gli interstizi delle sezioni, tra i silenzi di un carcere minorile dove i ragazzi dovrebbero essere ascoltati, compresi, aiutati. Cosa è accaduto tra uomini che dovrebbero collaborare per costruire un futuro a chi ha incontrato troppi ostacoli nella vita. Non è un problema di linea governativa o, almeno non è solo quello. E neppure di clima. Sarebbe una lettura semplicistica e non corrispondente alla realtà. Quando si consumarono i fatti di Sassari si era appena insediato il governo Amato preceduto da quello di D’Alema. A Santa Maria il ministro della Giustizia era Marta Cartabia. Non è dunque la linea governativa che traccia la politica penitenziaria nei comportamenti interni delle carceri. E, comunque, non è solo quella. Chi ha vissuto tra le mura di un carcere sa che la complessità è uno dei passaggi fondamentali ed è quello che non aiuta a dipanare certe scelte e certi atteggiamenti. Diciamocelo francamente: per anni si è ritenuto scommettere solo ed esclusivamente sul fattore sicurezza e questa linea non si è mai modificata. Ci sono poco più di trentamila poliziotti a fronte di duemila educatori. La sperequazione è ovvia: si vuole contenere e non affrontare il problema. I ruoli apicali non scommettono sul dialogo e sul confronto. Troppo dispendioso. Meglio infilare i detenuti nelle proprie celle con modi oltremodo spicci. Quando si decise una certa apertura, chiamata erroneamente “sorveglianza dinamica”, i sindacati dei poliziotti provocarono una quasi sommossa. Non era pensabile, per loro, che i detenuti potessero stare fuori dalle celle, nonostante l’articolo 6 dell’ordinamento penitenziario fin dal 1975 ricorda che quelle stanze anguste ed umide sono “locali destinati al pernottamento” e non possono, pertanto, contenere per 23 ore detenuti ammassati al loro interno. Il risultato, scontato, è sempre quello: il carcere è violento perché siamo noi, con le nostre scelte, a renderlo tale. Se ad un gruppo di minorenni non concediamo nessuna alternativa, se li consideriamo gli scarti della società, se li deridiamo, li dimentichiamo, come si potranno comportare? L’eccessivo controllo, la follia dell’impartire esclusivamente ordini porta a sconquassi irrimediabili e genera violenza. I poliziotti hanno sbagliato e pagheranno. Hanno riportato indietro le lancette della speranza, non hanno compreso che era necessario il cambiamento. E quando, per fortuna, sono arrivati il nuovo direttore e la comandante tutti gli errori sono stati evidenziati. Siamo un popolo curioso: amiamo Mare fuori ma costruiamo verità vergognose.