Microfisica del potere (La Nuova Sardegna, 3 ottobre 2019)
Che sapore ha il sangue di Stefano Cucchi, la tumefazione del ragazzo tunisino al centro di un’indagine dove sono coinvolti – accusati di tortura – degli agenti di polizia penitenziaria del carcere di San Gimignano? Un sapore acre, perché è lo Stato, con i suoi rappresentanti, ad essere coinvolto. E’ lo Stato che non può applicare nessuna forma di vendetta a doversi difendere. Sul caso Cucchi ormai è stato detto quasi tutto: da un’accusa – davvero infamante – a degli agenti di polizia penitenziaria risultati poi estranei ai fatti, ad un imputazione gravissima per dei carabinieri che oltre a pestare selvaggiamente un ragazzo inerme hanno anche falsificato i verbali e con essi la verità. L’Arma dei Carabinieri si è sentita offesa, vilipesa, ferita dai propri uomini, da coloro che hanno giurato fedeltà alle istituzioni. Sul caso dei quindici agenti di polizia penitenziaria indagati (quattro di essi sono stati sospesi dal servizio) vi è ancora tanto da comprendere e verificare come si siano svolti i fatti. Vi sono delle testimonianze, delle chat da visionare sui cellulari, delle intercettazioni ambientali. Il carcere ritorna a far parlare di sé. Il carcere si ripresenta davanti al palcoscenico sociale raccontando episodi non proprio edificanti. Sassari, nel 2000, è stato teatro di un momento difficile. San Sebastiano fu lo scenario di una rappresentazione terribile, sbagliata. La città si svegliò un giorno con gli agenti arrestati, accuse di pestaggi poi confermate per alcuni in via definitiva dal Tribunale. Fu una delle ferite peggiori, difficile da suturare, impossibile da dimenticare. La via delle contraddizioni e degli errori è lastricata di episodi sbagliati effettuati da rappresentanti delle forze dell’ordine che “interpretano” i regolamenti in maniera personalistica. Permane, sottotraccia, ciò che Michel Foucault chiamava “microfisica del potere”, un codice di leggi non scritte che si reggono sull’omertà e sul corporativismo. Scelte ovviamente errate e contro le norme ufficiali. Scelte che non sono di tutti ma di una sparuta ed infinitesimale minoranza e producono un doloroso rumore quando vengono scoperte. Il carcere è un luogo di sofferenze, è privazione di libertà, è un passaggio dolorosissimo per chi lo subisce ed impegnativo per chi quotidianamente ci lavora. I detenuti, negli anni, sono cambiati. Si è modificato l’approccio sistemico, in generale gli uomini incarcerati hanno aumentato la loro fragilità e si sono accentuate le problematiche sanitarie. Il carcere non è la soluzione alle diversità e non può essere il parcheggio delle contraddizioni sociali. In carcere ci finiscono per la maggior parte “gli ultimi” o, al massimo, “i penultimi”; persone indifese, molti con problemi patologici gravi, alcuni con costrutti sociali devastanti. La pena non è necessariamente il carcere ma il carcere diventa, paradossalmente, una pena aggiuntiva per chi non ha gli strumenti. Il rispetto delle persone è sacro in ogni latitudine figuriamoci all’interno di mura dove ad agire sono i rappresentanti dello Stato, i quali devono preservare quegli uomini che hanno sbagliato e, per motivi vari, devono scontare una pena. Dobbiamo avere piena fiducia nella Giustizia e nella Magistratura: la stessa che deve essere utilizzata anche per chi, in carcere, è in attesa di giudizio e quindi da considerare innocente sino alla sentenza definitiva. Ho lavorato e lavoro a fianco della Polizia Penitenziaria. Riconosco il loro valore e ne comprendo i sacrifici. L’episodio di San Gimignano è un episodio isolato ma che non può essere nascosto o preso sottomisura. Il corpo di polizia penitenziaria ha gli anticorpi necessari per discostarsi da ciò che probabilmente è accaduto. Non abbiamo bisogno di anni per comprendere gli errori: è necessario verificare subito ciò che è successo ed eventualmente condannarlo. In nome di chi tutti i giorni lavora in condizioni difficili e in luoghi complessi. Lo Stato esige chiarezza e rispetto. Lo Stato non può permettersi altre giornate amare.