Le tane dell’odio (La Nuova Sardegna, 5 marzo 2018)
Ci sono due storie che camminano su binari sociali diversi ma che, seppure apparentemente molto lontane, finiscono per incontrarsi.
La prima è quella che coinvolge un uomo di 43 anni, italiano, il quale convinto di essere possessore di anime e corpi decide di sparare alla moglie – dalla quale era separato – con l’intento di ucciderla, ammazza a sangue freddo due bambine e, infine, si toglie la vita.
La seconda si svolge al Nord, precisamente a Torino e vede come protagonista una donna, anch’essa italiana che, durante una manifestazione antifascista ha augurato alle forse dell’ordine (poliziotti e carabinieri) di morire tutti.
Perché queste storie davvero molto lontane si incontrano? Il problema, in prima analisi è legato alla spettacolarizzazione degli eventi, alla messa in onda di passioni forti e recondite, al non saper più utilizzare il campo del raziocinio, della discussione, al non sedersi per ascoltare le ragioni degli altri. Si parte, essenzialmente, dalla propria convinzione che è unica e non barattabile: da una parte la mia verità assoluta rappresentata dal bene e dall’altra quella dell’avversario o del nemico che non potrà mai avere ragione e, pertanto, è inutile stare a sentire.
C’è poi questa massificazione degli eventi, questo voler continuare a ragionare per stereotipi ed etichettamento che pure in criminologia ha fatto il suo tempo.
Negli anni settanta le divisioni erano molto nette: da una parte i fascisti, dall’altra gli antifascisti. I poliziotti, in larga misura, venivano additati come fascisti, picchiatori. Negli anni settanta l’omofobia era qualcosa di intrinseco e non si pensava neppure minimamente a rispettare certi canoni che, proprio da alcune lotte di donne coraggiose di quei tempi, portarono ad una lenta ma per fortuna inesorabile presa di coscienza da parte di tutti sulla questione femminile e sulla parità dei sessi. Sono, a quanto pare, presenti alcuni retaggi culturali che portano alla discriminazione, all’odio, alla vecchia idea di “possedere” le persone. Retaggi purtroppo ancorati ad una formazione culturale che non prende in considerazione, neppure per un attimo, le ragioni dell’altro.
Il proprio vicino, il condomino, l’autista accanto al semaforo, il compagno o la compagna, il poliziotto, sono diventati il proprio nemico in una guerra che nessuno ha formalmente dichiarato ma che si combatte quotidianamente in tutte le province italiane. Ed ecco che l’etichettamento ci porta a percorrere la strada del populismo, della mancanza di oggettività, della capacità di una minima analisi della situazione e ci porta a considerare l’altro un nemico, non in quanto uomo ma in quanto categoria: è un poliziotto, un carabiniere, uno sbirro e quindi non sarà mai dalla mia parte. Sempre negli anni settanta degli uomini pensavano la stessa cosa: non si doveva colpire l’uomo ma il ruolo o la divisa che rappresentava. Vennero assassinati degli innocenti: erano poliziotti, carabinieri, agenti di custodia, magistrati, giornalisti. Quegli uomini che rifiutavano il dialogo, l’analisi della situazione perché si ritenevano a capo di un popolo inesistente erano le Brigate Rosse, i Nuclei armati rivoluzionari, erano esponenti di Ordine Nuovo. Il terrorismo è stato superato. Poi, senza che nessuno abbia dato l’allarme (se non in qualche maniera Zygmunt Bauman, quando ci ha avvisato che si stava vivendo dentro una società liquida e che le relazioni sociali si decomponevano e ricomponevano molto rapidamente) siamo lentamente scivolati nell’odio verso l’altro. Le due storie hanno questo in comune: sono storie italiane, di questo paese. Davanti al carabiniere c’era una donna innocente che voleva crescere le sue due bambine. Davanti alla maestra siciliana c’era, molto probabilmente, un padre di famiglia che anche lui, svolgendo un delicato mestiere per conto dello Stato che anche la maestra rappresenta, non poteva e doveva essere minacciato di morte. Viviamo in una società complessa, è vero, ma dovremmo cominciare ad ascoltare i silenzi di un mondo che comincia a non avere più ossigeno sociale.