Le sentenze e la dignità (La Nuova Sardegna, 11 aprile 2021)
Diventeremo un paese adulto quando non lasceremo la parola ai giudici, agli avvocati, ai tribunali, ai giochetti e ai cavilli per dire che chi stupra una donna va condannato e non è possibile, non è pensabile che al processo di primo grado la donna non era stata giudicata attendibile perché, secondo i giudici, “aveva detto basta, ma non aveva urlato” e quindi “non aveva tradito emotività”. Pareva già questa un’onta terribile, inenarrabile per un paese mediamente civile. Invece in quel caso il giudice aveva stabilito di trasmettere gli atti in procura per procedere contro la donna – e quindi l’unica vera vittima – per il reato di calunnia.
Questa storia non andrebbe raccontata e potrebbe essere, al massimo, una favola nera. Invece è accaduto in Italia dove un soccorritore ed istruttore del 118 (quando si dice che il male si annida ovunque) aveva violentato la collega in una piccola stanza dell’ospedale Gradenigo di Torino. In secondo grado la sentenze aveva preso, per così dire, una piega diversa: la donna era stata riascoltata e il racconto era stato ritenuto pienamente credibile. Per i giudici della Corte d’Appello non vi erano dubbi che la violenza fosse stata commessa e che la povera donna l’avesse subita. Però – ed è un però che grida davvero vendetta – il nostro violentatore italiano e nordico si era salvato ancora una volta in quanto, secondo la corte, non esisteva la procedibilità del reato: ovvero la donna, la vittima, colei che aveva subito il reato più atroce, non aveva sporto subito denuncia nei confronti dei suo carnefice. La povera volontaria, in poche parole, non si era rivolta immediatamente alle forze dell’ordine perché il carnefice era il coordinatore regionale del servizio e lei aveva avuto paura. Bastava questo per concludere la storia in binari più equi ed invece ci si è dovuti rivolgere alla suprema corte. Lo ha fatto, con piglio sociale, la sostituta procuratrice generale Elena Daloiso che ha impugnato la sentenza in Cassazione e la corte ha stabilito che la querela non era necessaria e il reato, in questo caso, procedibile d’ufficio. Il fascicolo è tornato a Torino dove sarà assegnato ai giudici di secondo grado di un’altra sezione rispetto a quelli che si erano già espressi. Questa storia fa riflettere non tanto sulla validità del sistema giustizia quanto sulla possibilità che esistano degli strumenti “legali” per farla franca davanti anche al reato più odioso.
La violenza sessuale è l’atto più crudo, infame, terribile che una persona possa compiere nei confronti di un uomo o una donna. Non credo esista, da nessuna parte al mondo, qualche cultura che giustifichi questo tipo di violenze. Si è lottato per anni affinché il reato di stupro fosse considerato contro “la persona” ed oggi siamo ancora davanti a delle discussioni che potrebbero forse avere un fondamento giuridico (personalmente non lo credo) ma non possono essere sostenute da chi si occupa di persone nel senso antropologico e sociale. Fin dalle motivazioni della prima sentenza questa storia è terribile: riuscire ad assolvere chi, utilizzando piccoli sotterfugi, riesce a farla franca; la frase “aveva detto basta, ma non aveva urlato” presuppone un’analisi molto più profonda che non può essere lasciata ad una semplice disquisizione giuridica. Vorrei chiedere quanti, davanti ad una minaccia, una violenza fisica, uno stupro, riescono serenamente e pragmaticamente ad analizzare la situazione, verificare le condizioni e le varie possibilità per potersi sottrarre al carnefice. Si possono anche inventare milioni di fiction ma non c’è nessun sceneggiatore che utilizzi l’urlo come unica soluzione. Il più delle volte è il terribile silenzio ad accompagnare il reato più osceno e vergognoso: un silenzio che in questi casi non è stato ben utilizzato. Un silenzio troppe volte complice e che ha giustificato questo tipo di sotterfugi. Io, da uomo, da persona civile, sinceramente mi vergogno e provo dolore. E non posso stare muto ad osservare la distruzione della dignità.