Editoriali
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La mafia e l’inchino (la nuova Sardegna, 11 luglio 2014)
Articolo apparso sulla Nuova Sardegna del 11 luglio 2014
diritti riservati © by giampaolo cassittaLa speranza non si baratta ed è la sola che illumina le giornate nere, senza sogni, senza ponti da attraversare. La religione cattolica è un inno alla speranza, alla salvezza, alla possibilità di poter, un giorno, riconciliarsi con il proprio Dio disegnato e descritto da tutti come un padre paziente ma, in ogni caso, esigente. Affermare che la mafia, la camorra, la ndrangheta siano lontani da Dio, per quanto sia un messaggio forte è anche, per certi versi, piuttosto ovvio. Scomunicare chi vive di mafia, camorra e ndrangheta è quindi consequenziale. Il problema però diventa importante quando a dibattere della questione sono i detenuti, quelli condannati per questi reati e quindi considerati da sentenza dello Stato appartenenti alla criminalità organizzata. La religione è stata sempre un terreno molto delicato e il rispetto per i credenti e per i non credenti deve essere sempre al di sopra di tutto. Ognuno ha diritto di professare il proprio credo. Da questo diritto, particolarmente importante in carcere, nasce però la richiesta di chiarezza da parte di chi è stato condannato, magari all’ergastolo che, oltre a nutrire una flebile speranza di poter uscire un giorno dal carcere, si ritrova anche la saracinesca della sua religione, del suo credo, incredibilmente chiusa. Papa Francesco non ha però condannato l’uomo, ma ha condannato un aspetto, un comportamento, un vivere al di fuori della comunità che si è data regole diverse da quelle dei mafiosi. Per chi rifiuta un confronto con il proprio Dio, per chi non ha il coraggio di attraversare nel deserto, in solitudine, in riflessione, per chi continua a mantenere quegli atteggiamenti, non può bussare alla porta della Chiesa proprio perché si è accasato da un’altra parte. E non valgono i santini bruciati, gli inchini di statue davanti a signorotti del paese (inchini che, beninteso, si ripetono da anni e solo una nuova presa di coscienza oggi ce li mette in mostra e ci fa gridare allo scandalo) non valgono i soldi ottenuti chiedendo il “pizzo” o vendendo sostanze stupefacenti e utilizzati per la festa del Santo. Papa Francesco ha semplicemente detto che tutto questo non può valere al cospetto di Dio perché manca, fondamentalmente, il passaggio del confronto, della riflessione. Manca, dunque, la disposizione al perdono che è chiaramente profondamente religiosa e lontana dalla laicità dello Stato. I detenuti si avvicinano al cappellano perché egli rappresenta un barlume di speranza e a volte confondono i piani tra Stato e chiesa. Su questo però occorre essere chiari e il buon Cavour lo ricordava alla fine del 1800: “libera chiesa in libero Stato” dove ognuno ha le sue prerogative e ognuno le sue strategie. Molti detenuti, a volte, ritengono di poter miscelare le due libertà, pensano di poter ottenere di più se ci si avvicina alla religione, se i loro passaggi si infarciscono di buone intenzioni. Tutto questo è un fatto assolutamente positivo e apprezzabile, ma non è il percorso richiesto dallo Stato che mantiene una visione assolutamente laica del comportamento all’interno degli istituti penitenziari e la religione è solo un elemento del trattamento che ha nella sua globalità interventi più complessi. “Lo sciopero della messa”, così come frettolosamente hanno titolato alcuni quotidiani, è un falso problema. Bisognerebbe domandarsi, invece, perché chi si ritiene quasi sempre estraneo ai reati come l’associazione per delinquere e nessuno di essi si dichiara “mafioso”, abbia richiesto un confronto. Semplicemente per paura di restare isolati, di non far parte più della comunità, quella costruita nei secoli attraverso le credenze religiose e non sulla “religione”. Uniti agli usi e alle tradizioni, non certo disposti all’analisi e all’esegesi cristiana. Hanno avuto paura che la religione, quella vera, le chiedesse uno sforzo cristiano e le chiedesse di abiurare un’altra religione, un altro credo: quello mafioso. Di questo hanno avuto terribilmente paura. Di restare soli e perdenti, quello che, laicamente, auspico da sempre. — |