Fuggire significa rimescolare le carte della propria esistenza. Si fugge in molti modi: dalle occasioni, dalle possibilità, dalle responsabilità, si fugge da un matrimonio, da una famiglia e dalle vicissitudini di una vita complicata. Si fugge dalle situazioni che non si amano. Il carcere è una condizione non positiva per chi lo subisce e la fuga è quasi una naturale necessità. Quella visione l’ho vista molte volte luccicare negli occhi dei detenuti davanti al mare dell’Asinara. Era una sfida contro il muro di cinta rappresentato, in quel caso, dall’acqua e dalle onde. Ci riuscì solo Boe nel 1986, ma anche questa è una piccola leggenda perché, probabilmente, negli anni del dopoguerra ci furono altre evasioni, detenuti che toccarono la Sardegna. Quasi tutti furono ripresi mentre qualcuno fu dato per disperso. Un po’ come la fuga da Alcatraz. Fuggire è dunque un’opportunità e per farlo occorre conoscere le regole del gioco perché se è lecito provare ad evadere e altrettanto lecito, opportuno, giusto, trattenerti in carcere. Lo Stato, dunque, almeno in questo caso, è la controparte di chi pensa di sfuggire alla propria pena. L’eclatante evasione di questi giorni avvenuta nel carcere di Nuoro riporta, se ancora ce ne fosse bisogno, il tema sulla detenzione, sulla sicurezza e sul penitenziario in generale. Cospito tenta di fuggire attraverso uno sciopero della fame che rischia di essere letale, la sua è una fuga sublimale, metafisica; Raduano è invece fuggito materialmente, aiutandosi con delle lenzuola per scavalcare il muro di cinta. Come nei più classici b-movie. Capire come sia riuscito a giungere dalla sezione o dal cortile dei passeggi con delle lenzuola fino al muro di cinta è compito degli inquirenti e del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Il detenuto, lo si dice sempre, ha tutta la vita per progettare l’evasione e lo Stato, attraverso i propri uomini, deve garantire alla comunità che quel detenuto possa restare soltanto con il sogno di poter fuggire, l’unico passaggio lecito di questo gioco delle parti. Quando, invece, quel sogno diventa realtà, lo stupore prende il sopravvento e l’evasione dal carcere diviene metro di discussione sullo stato del sistema penitenziario in Italia. Ovviamente le cose sono più complesse di un semplice filmato gettato sui social e reso subito virale nell’universo mondo, (qualcuno, addirittura, ha accompagnato il filmato con la frase di Antonio Gramsci “la libertà è sempre rivoluzionaria) in quanto ci si scontra con una serie di realtà organizzative difficili da gestire. Non si deve mai partire dalla classica domanda: “Chi ha sbagliato?” ma chiedersi, piuttosto, se nelle stesse identiche condizioni chiunque, anche chi indaga, avrebbe fallito. Perché se questo è il punto di vista obiettivo allora la risposta, per quanto dolorosa, è semplice: la colpa è strutturale. Fuggire da un carcere non è semplice: scappare dal carcere di Nuoro era, fino a questa evasione, impossibile. Certo, fa più rumore un detenuto che scappa da un carcere rispetto a quelli che, invece, non riescono a concretizzare il loro sogno, così come fa notizia chi non rientra da un permesso premio rispetto alle migliaia di persone che, spontaneamente, si ripresentano davanti alla porta del carcere dopo i giorni di libertà concessi dal Magistrato di Sorveglianza. Utilizzare la fuga per attaccare chi in carcere ci lavora tutti i giorni, oltre che oltraggioso è sbagliato. Occorre, a questo punto, un’analisi seria, importante, necessaria, sui circuiti penitenziari, sui sistemi di sicurezza e di videosorveglianza. Occorre comprendere che la maggioranza dei detenuti necessitano di questi metodi e, infatti, le evasioni da Isili, Mamone, Is Arenas sono pressoché nulle eppure quei detenuti, liberi, potrebbero fuggire in ogni momento. Dobbiamo assicurare istituti penitenziari sicuri, con un’adeguata forza di polizia penitenziaria, circuiti di videosorveglianza ma solo ed esclusivamente per quei detenuti che non devono fuggire. Un carcere con troppi circuiti rischia di creare confusione in chi ci lavora. La nostra idea di “carcerizzazione” per qualsiasi reato (dal semplice furto alla strage di Stato) rischia di affievolire l’attenzione verso chi quell’attenzione realmente la merita. In carcere devono essere reclusi solo quelli con dei reati gravi. Per gli altri occorrerebbe una gestione diversa dalla pena che non contempli necessariamente la detenzione in un penitenziario. Degli oltre cinquantamila detenuti in Italia quanti, davvero, meritano attenzione severa? Meno della metà. Ecco: a questi andrebbe riservato un penitenziario con adeguata forza di polizia, sistemi di sicurezza all’avanguardia. Per gli altri, invece, ci si deve rivolgere al vero processo di reinseimento, un carcere “leggero” con opportunità esterne dove la polizia penitenziaria, insieme agli operatori del trattamento, possa contribuire a riprendere la vita di chi ha sbagliato e intende rimettersi in gioco. Ma questo, soprattutto di questi tempi, non sembra il programma di questo paese.#giampaolocassitta #gentedellasinara
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