
La favola del bandito buono
Con Graziano Mesina ci siamo incrociati due volte. La prima quando era un uomo libero, in un convegno a Sassari; la seconda nel 2014, nel carcere di Nuoro, dove si trovava a seguito del nuovo arresto dopo l’accusa di spaccio di sostanze stupefacenti.
Sia nel primo che nel secondo caso aveva uno sguardo solitario, poche parole e, nei miei confronti, un docile ribrezzo. Per lui ero comunque dall’altra parte. E aveva ragione.
La sua storia ha camminato su binari opposti, ed esserci incontrati è colpa del mio e del suo mestiere.
Del convegno ricordo poco, ma di quell’incontro a Nuoro mi rimase la consapevolezza che l’uomo – e non il detenuto – non intendeva accettare la sconfitta.
Ci dicemmo poche cose, relative al sovraffollamento del carcere, e lui insistette per avere una cella singola, da ergastolano. Sapeva come chiedere e sperava, sempre, di ottenere. È stato un detenuto complesso, difficile da inquadrare. È stato un uomo con molti angoli di vita e con il mito della sopravvivenza.
La fuga dal carcere era, per lui, più che una necessità – quella lo è per tutti i detenuti – una scommessa: volerlo fare e riuscirci. È stato latitante, primula rossa e sequestratore, omicida e incantatore.
È stato tutto e il contrario di tutto. E’ morto lontano dalle sbarre. E’ stato indubbiamente un bel gesto in quanto il tumore ormai lo divorava. Voleva morire a casa, in Sardegna. Sarebbe stato un suo diritto ma non c’è riuscito. Potevano decidere il trasferimento molto prima, ma non lo hanno fatto. Stare vicino agli affetti è contemplato dall’Ordinamento Penitenziario ma, a volte, le strade del diritto hanno curve che si adagiano nella grande selva delle opportunità.
A pensarci bene, Mesina ha rincorso per tutta la vita una libertà che aveva i colori della sua isola.
Le sue fughe erano sempre costruite per ritornare tra le rocce e i silenzi della Sardegna.
Fuggire è stato il suo obiettivo: sempre. Probabilmente voleva farlo anche in quest’ultima recita da attore comunque protagonista. Non era facile. Il tumore ha deciso soluzioni diverse, e per un uomo che ha passato quasi tutta la vita dietro le sbarre, la malattia è stata una beffa atroce con cui fare i conti. Nel pallottoliere delle scelte, l’uomo ne è uscito irrimediabilmente sconfitto.
Tra fughe e commissione di nuovi reati, la sua storia è stata legata in maniera indelebile al dover stare dalla parte di Caino. Non c’è mitizzazione nelle sue scelte. Mesina non era un eroe. Non era neppure il cigno nero o il male assoluto. È stato un uomo che, pur avendo diverse opportunità di poter ripartire in maniera diversa, non l’ha mai fatto.
Dopo la concessione della grazia, ha tentato – faceva la guida turistica – di inabissarsi nella normalità.
Lo ha ritenuto, forse, troppo banale. Rimangono alcuni fotogrammi, proprio come un vecchio film in bianco e nero, delle sue scorribande: come l’evasione dal carcere di San Sebastiano a Sassari dove, insieme al suo compagno di fuga, Miguel Atienza, dopo aver saltato il muro di cinta chiamarono un taxi e si fecero accompagnare a Ozieri, dove cominciarono una vita costellata di reati.
Non ha vinto Mesina. Non poteva.
Non ha vinto neppure lo Stato. In questa storia non ha vinto nessuno. Aveva il diritto di salutare il mondo senza le sbarre davanti? Tutti dovrebbero avere questa opportunità.
Troppa prigione non serve a nessuno. Ora che il treno è arrivato all’ultima stazione, mi ritornano in mente i suoi occhi e quello sguardo sfoderato nel carcere di Nuoro, quando, a malapena, mi strinse la mano. Era il volto di chi aveva rotolato nella vita troppo velocemente e non era riuscito a fermarsi.
Nonostante le sbarre, nonostante gli errori. Mesina ha sempre inseguito un sogno: la libertà.
Ma, una volta ottenuta, non è poi riuscito a conviverci.
Peccato.