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Insegnare la bellezza (La Nuova Sardegna, 17 maggio 2018)

Insegnare la bellezza (La Nuova Sardegna, 17 maggio 2018)

Ai jeans stracciati ci siamo abituati. Rappresentano il bagaglio di comunicazione degli adolescenti di oggi. E’ identico a quello evidenziato da Pier Paolo Pasolini in un articolo che comparve sul Corriere della Sera il 7 gennaio 1973, vecchio ormai di 45 anni. In quel caso si trattava di maschi con i capelli lunghi. Pasolini leggeva in quel  messaggio silenzioso ed esclusivamente fisico di quei giovani di allora,  un qualcosa di metacomunicativo, di trascendentale quasi, misto al silenzio che quei ragazzi dai capelli lunghi esprimevano. Secondo Pasolini quei giovani dicevano che “la civiltà consumistica ci ha nauseati. Noi protestiamo in modo radicale. Creiamo un anticorpo a tale civiltà, attraverso il rifiuto.” Quel messaggio era una sorta di manifesto contro l’integrazione. Ha senso, oggi, nel 2018 parlare di rifiuto attraverso il linguaggio delle cose e, dunque, della moda? Ha senso dire che i jeans stracciati, i tatuaggi evidenti, i piercing, le magliette attillate, i reggiseni da mostrare siano una forma di linguaggio? E se così fosse cosa vogliono raccontare? I capelloni (lo siamo stati più o meno tutti a cavallo degli anni 70) esprimevano, per dirla con Pasolini “cose” di sinistra, ma non erano necessariamente di sinistra. Ho sempre amato le cravatte e la prima che acquistai era di un colore decisamente orrendo: arancione. Mi scontrai con i mei amici di allora perché la cravatta era un vessillo della destra. Era da fighetti. Nonostante il colore non convinsi del tutto i duri e i puri di quel periodo.

I giovani d’oggi sono assolutamente diversi da quelli del 68, da quelli dipinti da Pasolini. Sono diversi per storia, per mutamenti sociologici e perché non sono nati intorno all’ideologia che divideva il mondo in due grandissimi tronconi: destra e sinistra. Oggi è tutto più sfumato e la politica non ha più il peso specifico che aveva nei nostri anni. Gli adolescenti di questo millennio hanno strumenti diversi con cui comunicare, strumenti veloci che utilizzano in ogni attimo della loro esistenza: istangram, snapchat. Il loro messaggio è però identico a quello di chi, negli anni sessanta, portava i capelli lunghi: esprime emozioni che vanno decodificate, in quanto figlie di una sottocultura. Pasolini si rese conto che i capelli lunghi erano diventati altro e non raccontavano più “cose” di sinistra. “Infatti”, scriveva nello stesso articolo, “una sottocultura di destra può benissimo essere confusa con una sottocultura di sinistra”. Perché, ad un certo punto, i capelli lunghi si omologarono e divennero patrimonio di tutti, destra compresa. Come i jeans stracciati di oggi o i tatuaggi e i piercing. Chi lavora in carcere sa benissimo che il detenuto era il depositario dei tatuaggi, così come i marinai o i mercenari. Oggi avere la pelle con disegni e scritte è divenuto trasversale. Scoprire che in una scuola media italiana la Dirigente scolastica, d’intesa con i docenti e i genitori, ha vietato minigonne e rossetti, jeans strappati e mutande bene in vista, non è ritornare indietro. E’, forse, provare a fermarsi e cominciare a porre dei limiti. C’è qualcosa che si è perso nel corso degli anni e non è, come qualcuno può pensare, il comune senso del pudore. Più prosaicamente si è perduto il fascino della bellezza e di una narrazione semplice, senza fronzoli. Il linguaggio si è evoluto e la moda ha voluto sequestrare i gesti alle persone. Si è sostituita all’ideologia, divenendo essa stessa ideologia.  I Jeans stracciati rappresentano una forma di comunicazione che ci vuole dire: “siamo qui, in questa terra di nessuno, in attesa di modificare un mondo che non ci piace. Siamo qui con i nostri strumenti: il corpo e i messaggi scritti. Ci tatuiamo per raccontarci, stiamo dentro la nostra stanza per non incontrarci, il mondo reale non ci appartiene.” Quei jeans strappati portano dentro un urlo spezzato che i nostri figli provano a buttare nella nostra metà del campo: educhiamoli alla bellezza. Il tempo per farlo c’è ancora.