Il carcere non è mai una soluzione, figuriamoci per i minori. (La Nuova Sardegna, 12/12/2023)
Il carcere minorile non è quello falso romantico della serie “mare fuori”. Non ci sono incontri d’amore tra ragazzine e ragazzini e non c’è il clima idilliaco e appiccicoso raccontato con molta enfasi e poca corrispondenza con la realtà. Il carcere minorile rappresenta una sconfitta per uno stato che dovrebbe lavorare sulla prevenzione più che sulla punizione dei ragazzi che sono, occorre sempre ribadirlo, il futuro del paese. Decidere che un quattordicenne (e quindi appena imputabile) possa trascorrere dei giorni dietro le sbarre è una sconfitta giuridica e sociale. Il giovane studente di Capoterra che ha accoltellato un suo coetaneo ha commesso un gravissimo gesto sul quale è necessario interrogarci ma non è possibile relegare tutto al “qui ed ora”. Facile adesso schierarsi dalla parte di una o l’altra fazione come se la questione fosse da relegare a semplice disputa o una disfida di un normale talent show. Il minorenne ha assolutamente sbagliato ad utilizzare il coltello, a colpire il suo compagno. La domanda però, è un’altra: cosa è successo prima e non, ovviamente negli attimi precedenti, ma nel cortile sociale, nella costruzione del vivere comune e del confronto con gli altri. Continuiamo a meravigliarci, a sgranare gli occhi davanti ad episodi violenti tra i minorenni senza tener conto di molti fattori, fili non invisibili che portano a questo tipo di reazioni. I ragazzi sono soli da un pezzo. Soli con il loro mondo virtuale, fatto di sfide giornaliere dove vincere è necessario e qualora tu venga ucciso c’è sempre l’aiuto di una nuova vita. Così, come nei videogames, i genitori arrancano, non ascoltano, non riflettono e finiscono soltanto per aiutare il proprio figlio senza neppure pensare alle ragioni che hanno determinato gli eventi: una partita di calcio, un brutto voto in condotta, una disputa tra ragazzi diventa una guerra santa dove gli adulti danno di loro un pessimo esempio. Lo diciamo da troppo tempo che i giovani non sono stati allenati alla sconfitta. La competizione, sana e necessaria, è valida solo se a soccombere è l’avversario trattato come nemico. I ragazzi sono ormai abituati a decidere in maniera molto veloce da che parte stare: non leggono, non approfondiscono, non ascoltano e lo fanno perché i loro modelli sono quelli degli adulti: persone distratte, rancorose, pronte ad ondeggiare tra la passività degli eventi e la spontaneità selvaggia degli attimi.
Il carcere non risolve le ferite di chi ha costruito i solchi sociali, di chi ha abbandonato l’analisi e la comprensione del senso delle cose per abbandonarsi allo spettacolo. Fateci caso: le storie non interessano più a nessuno, ci si appassiona per l’attimo fuggente, per la coltellata, per la marca dell’arma, per la foga di una fuga e, qualche volta, cinicamente, per riderci sopra. Se la famiglia è l’agenzia principale preposta alla socializzazione dei minori da questa storia non ne esce bene. Non c’è un progetto di crescita, non vi è nessun processo che lavori sulla centralità del soggetto. Tutto è spettacolo, tutto è egocentrico, tutto è polvere da palcoscenico. Nessuno prova a comprendere le ragioni che hanno determinato l’atto violento, la risposta di un ragazzino di quattordici anni che ha usato una lama affilata per colpire un sistema sociale allo sbando, gonfio di falsi miti e promesse. Non è vero che si vince sempre, non è vero che il mondo è ingiusto, che gli altri sono tutti cattivi, che questo è un mondo violento. Non è vero. Raccontarlo anche dal loggione della politica alimenta questa falsa verità. Il carcere è la soluzione spiccia ai problemi complessi, è il voler nascondere sotto il tappeto la polvere delle richieste inevase, delle domande difficili a cui da genitori, da politici, da addetti al sociale non vogliamo rispondere. Il carcere per un minorenne rappresenta la nostra sconfitta: non siamo riusciti a costruire intorno a lui certezza e tranquillità. Non siamo riusciti ad offrirgli un futuro diverso da quella scelta scellerata.