Educare significa costruire un paese migliore (La Nuova Sardegna, 30 aprile 2019)
Mi è piaciuto particolarmente l’accostamento che il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha effettuato quando ha paragonato la festa della Liberazione al nostro secondo risorgimento e ha bilanciato tutto aggiungendo che il 25 aprile ha, per tutti gli italiani, un altissimo significato, quello di un “popolo capace di riscattarsi, di riconquistare il proprio destino sulle macerie materiai e morali di un regime nemico dei suoi stessi concittadini” e, in quella voglia di riscatto la “nazione ha ritrovato la propria dignità”. Per questo monito laico e gonfio di amor di patria ha usato tre verbi utilizzando sempre il prefisso “ri”: ri-sorgimento, ri-scattare, ri-conquistare. Questo utilizzo – bellissimo ed evocativo – mi riporta a riflettere su altri verbi con il prefisso ri, quasi tutti di formazione italiana (solo alcuni sono stati ereditati ed adottati dal latino come ricalcare, ricevere, ricompensare, riconoscere, riflettere, rimettere, rimuovere, riprendere, risolvere, rispettare, ecc.) uno dei quali da me utilizzato per mestiere: rieducare. Se risorgere non è cosa semplice perché il sorgere del sole è sempre identico e naturale ma il risorgere delle coscienze, per esempio, risulta essere un’operazione complessa e di difficile lettura, rieducare è, di per sé, azione molto più difficile. Tutto ciò che è stato perduto e deve, in qualche modo, essere riconquistato, comporta fatica, dedizione, impegno, passione. Si parte da ciò che si è smarrito tentando di analizzare le ragioni che hanno determinato quella sconfitta, quel raggiungere la polvere della propria storia, quel dover rimettere in moto una serie di passaggi a volte dimenticati o mal interpretati. Pensare alla lotta partigiana come un nuovo “risorgimento” rivela la consapevolezza che la dignità era perduta nel corso degli anni bui del fascismo, rivela la voglia e la forza di guardarsi dentro e provare a riprendersi la propria vita e costruire un futuro per gli altri. Quando educhiamo i nostri figli lo facciamo aggrappandoci ai valori che ci hanno insegnato i nostri avi; lo effettuiamo seguendo diversi sentieri: quello laico, quello religioso, quello personalistico. Lo facciamo perché pensiamo che la razza umana porta con sé un crogiolo di tradizioni, di credenze, di valori che non possono essere del tutto abbandonati. Possono, semmai, essere modificati a seconda del tempo e delle nuove scoperte scientifiche, filosofiche, sociali, umanistiche, ma non saranno mai del tutto abbandonati: il valore della vita, del rispetto, dell’amore, dell’etica fanno parte di un patrimonio genetico indissolubile anche se potranno subire interpretazioni diverse nel corso degli anni.
Educare è mestiere arduo, significa letteralmente “trarre fuori, allevare, condurre” verso il bene, la virtù, verso l’amore per il mondo, significa modellare i giovani allo studio, alla modestia, alla moderatezza, alla bellezza. Educare significa costruire per il futuro. Se questo insegnamento è dimenticato, nascosto nella polvere dell’attualità, sedimentato nel fondo della nostra coscienza, occorre avere il coraggio di denunciarlo, di evidenziarlo e di ripartire attraverso la rieducazione. Non dobbiamo aver paura di aver dimenticato, dobbiamo nutrire il timore di non conoscere, di rifiutarci di sapere, di non essere curiosi, passionevoli. Siamo figli dell’oblio: dimentichiamo perché ricordare costa, analizzare tutti i fattori comporta fatica, studio, comporta lavoro, analisi, sintesi. Studiare non è formulare quattro slogan buoni per qualche stagione. Studiare è applicazione e seguire con regolarità il corso degli eventi. Ecco perché, di questi tempi siamo costretti ad utilizzare il prefisso “ri”: perché abbiamo dimenticato cose apparentemente semplici come educare, amare, unire, sorgere, prendere e dobbiamo, necessariamente, ritornare ad essere rieducati, dobbiamo riamare, riunire, risorgere, riprendere e non ri-dimenticare. Sarebbe come non conoscere la storia e dimenticare la resistenza che ci ha reso liberi. Chi ha memoria resiste. Riflettiamoci.