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Cutolo, l'Asinara e l'oblio.

Cutolo, l’Asinara e l’oblio.

Io e Raffaele Cutolo ci siamo incrociati nel 1985 nel carcere dell’Asinara. Era detenuto presso il transito vecchio, in una cella abbastanza infame. Chiedeva, con una certa insistenza, delle audiocassette che qualcuno, da Ottaviano, gli aveva spedito e contenevano canzoni melodiche napoletane: da Mario Merola a Nino D’Angelo.
Non mi fece una grandissima impressione e, ovviamente, non mi procurò nessuna grande emozione. Piccolo e con occhi veloci con un vezzo fastidioso: sorrideva e ammiccava, toccando la spalla del suo diretto interlocutore. Non mi piacque quel giorno e non mi piacque mai. Il suo modo quasi insolente di proporsi, quella sua falsa spavalderia di chiedere con l’assoluta certezza che gli si doveva comunque una risposta identica ai suoi pensieri. Si capiva che dietro quella noncuranza, quella aitante messinscena da uomo navigato, da quello che – per dirla con Totò – aveva fatto il militare a Cuneo c’era, invece, un’immensa solitudine e rabbia che lo divorava. Era costretto a stare da solo tutto il giorno, ora d’aria compresa. La leggenda narra che all’Asinara ci finì per volere di Pertini. Una bella leggenda che un piccolo educatore come me la viveva come una curiosa storia.
Non ci prendemmo. Non ci capimmo, non riuscimmo a tradurre i silenzi in parole di disponibilità. Un giorno mi apostrofò come “bravo ragazzo” alludendo, forse, al fatto che fossi ai suoi occhi un tantino “fesso”, come amava ripetere di molte persone che continuamente nominava. Sapeva che il fesso era stato lui che, sedutosi al tavolo di gioco, non seppe attendere la mano giusta e cominciò a muoversi in maniera troppo scomposta e nessuno credette al suo bluff.
Non era una persona buona e non faceva niente per esserlo.
Quando, nel 1986, mi recai con Enzo Tortora ad incontrarlo (Tortora era allora stato scarcerato perché divenuto parlamentare europeo) fu un dialogo tra sordi. Ed Enzo Tortora rimase quasi stupito della sua tracotanza, delle sue certezze, delle sue convinzioni che niente avevano a che fare con l’etica e la giustizia.
Cutolo se ne andò un giorno abbastanza sterile di avvenimenti. Ero impegnato in colloqui con altri detenuti e qualcuno mi disse che il boss di Ottaviano era riuscito a prendere il volo, era riuscito a strappare l’incantesimo che lo voleva imprigionato all’Asinara dal partigiano Pertini. Non dissi nulla, non commentai. Non scrissi nulla sulla sua storia, sul suo essere detenuto, sui suoi modi poco disposti alla conciliazione.
Ho sempre diffidato di chi ti da un colpo alla spalla per comunicarti che possiamo essere amici. Non potevamo esserlo per milioni di motivi e non potevamo neppure recitare i ruoli per i quali c’eravamo incontrati sul palcoscenico della vita: lui non mi ascoltava ed io non intendevo assecondare i suoi sguardi. Non ha mai riconosciuto lo Stato e la possibilità di ricominciare , in qualche modo, anche con i gesti.
La sua morte appartiene al silenzio