Che cos’è la paesitudine? (La Nuova Sardegna, 20 settembre 2018)
Ci interroghiamo spesso sul senso della vita, su questo mondo elettronico e veloce che non ci regala il tempo per sedersi e meditare. Vorremo passare dei mesi in un monastero, senza cellulari, senza nessun appiglio, senza sentire nessuna notizia. Vorremo dedicare il tempo solo ai pensieri soffici, a “staccare” da un mondo che, tutto sommato abbiamo costruito nel tempo, ma dal quale vogliamo rifuggire.
Uno dei desideri sempre più frequenti che si sentono soprattutto nelle città è poter vivere in campagna, in una baita, dove nessuno ci chiede conto di nulla, dove il sole sorge per il gusto di farlo, dove il tempo riveste un concetto misantropo e dove gli occhi servono per osservare solo i tratti colorati della natura che ci abbiamo intorno. Però, a conti fatti, non lo facciamo.
Siamo intrappolati dentro le nostre città, i nostri raccordi anulari, i semafori, le doppie file, i parcheggi inventati, quelli alternativi; siamo sempre connessi a scrivere e rispondere. Utilizziamo ormai poche parole e le sbagliamo per la fretta di digitarle. Molti non riconosco più un verbo da una semplice congiunzione. Non sono cose importanti. Siamo così presi dal tutto che abbiamo costruito che non ci rendiamo conto del niente che abbracciamo. Siamo così convinti di essere dalla parte giusta, quella dei vincitori, quella dei migliori, che non rendiamo conto che sono crollati i muri, ma anche i ponti. Non c’è più spazio per la poesia e la bellezza però riempiamo i nostri discorsi di spruzzate di acquerello: vorremo vivere in un paese, di quelli piccoli, di quelli dell’entroterra sardo. Però non ci andiamo. Al massimo ci facciamo una passeggiata quando c’è qualche manifestazione; quei paesi rimangono, per molti, solo “cortes apertas” da visitare con un dolce sospiro. Da quelle parti non è arrivata la super fibra e in certi luoghi a malapena c’è “campo” per il cellulare. In quei luoghi i campi hanno altri colori e odori ma non siamo disposti a passeggiarci.
Tranne Silvia che ha lasciato Milano ed è salita sulle Alpi Orobie bergamasche. Lo ha fatto per amore: delle pecore e del suo Massimo. Esattamente in quest’ordine.
Silvia è laureata in ingegneria ambientale al Politecnico di Milano. Ha studiato a Graz, in Austria e la tesi l’ha scritta alla Boston University. Lui, Massimo, ha solo il diploma di terza media ma una grande abilità nella macellazione della carne ovina. Entrambi hanno 28 anni. Sono figli di questi tempi e hanno fatto scelte d’altri tempi. Vivono, per otto mesi l’anno in una baita a 1850 metri d’altezza sull’Alpe Zo. Non hanno elettricità e sono a 45 minuti a piedi dal punto più vicino raggiungibile a motore. Lavorano circa dodici ore al giorno: lei pascola le pecore, aiuta le femmine nel parto e cura i cani. Non hanno l’acqua potabile e raccolgono quella piovana. Dormono in un sacco a pelo. E sono felici. Di quelle felicità che ci fanno decisamente paura. Molta paura.
A noi che vorremmo vivere tranquilli in un luogo ameno. Ma non lo facciamo. Probabilmente perché ci manca il coraggio o perché quel coraggio non lo troviamo, occupati come siamo ad intervenire nei vari convegni dove si parla di spopolamento delle zone interne, di voler riconvertire i paesi che stanno scomparendo, trovare una soluzione per pianificare qualcosa.
Siamo intrappolati dalle nostre parole, da quel concetto abusato della “contaminazione” dell’inclusione, del voler dare risposte a tutto e a tutti senza riuscire a stare per più di un giorno senza il nostro cellulare. La lezione di Silvia e Massimo è bellissima: non acquistano prodotti biologici, loro ci vivono in un ambiente sano e pulito. Hanno un mestiere apparentemente redditizio: le carni delle pecore giganti bergamasche sono allevate da secoli per la carne saporita, ottima per la tagliata. Non hanno pensato di “allargarsi” di fare “business” o di vendere i loro prodotti su “internet”. Hanno deciso di affrontare la loro vita con semplicità, eliminando il “plus-valore”.
Vuoi vedere che questa è paesitudine?