Menu
Carcere: Il Silenzio Complice di uno Stato Assente

Carcere: Il Silenzio Complice di uno Stato Assente

Ritorniamo al carcere, ma non a parlare di carcere. A chi importa davvero? Sovraffollamento, suicidi, denunce dall’Europa: eppure tutto tace. Incredibilmente, colpevolmente, tutto tace. Le uniche voci che si levano sono quelle delle organizzazioni sindacali, dei garanti dei detenuti, gli ultimi baluardi di umanità in questo inferno dimenticato. E il governo? Il governo non parla. Il ministro della Giustizia non parla. I sottosegretari, complici nel silenzio, tacciono. Il DAP, la macchina amministrativa che dovrebbe governare le carceri, non emette alcun comunicato. Il sogno di una “casa di cristallo”, come la chiamava Nicolò Amato negli anni Novanta, è morto. Oggi tutto è tornato opaco, scuro, senza trasparenza.
Gli operatori, quelli che vivono e soffrono ogni giorno nelle carceri, non possono parlare. Sono bloccati, costretti a un silenzio di ferro. I detenuti, schiacciati dall’indifferenza, mandano qualche timido messaggio ai familiari o, più tragicamente, si consegnano alla morte. Il suicidio è l’ultimo grido che resta. La rivolta, l’ultima speranza. Eppure, anche questo non scuote nessuno. In Italia, il carcere è un luogo dove la vita ha un lieve peso specifico. Dove non si garantisce la salute, dove le leggi penitenziarie restano solo carta straccia.
C’è ancora chi urla che i detenuti devono soffrire in silenzio, senza disturbare. “Dopotutto, non sono già abbastanza privilegiati? Hanno il televisore, perfino a colori. Cos’altro pretendono?” A queste voci non rispondo. Perché? Perché sono voci di ignoranza, di crudeltà, di indifferenza verso una realtà che non conoscono. Non sanno cosa sia davvero un penitenziario, non capiscono le dinamiche che si scatenano tra quelle mura, quanto sia disumano spingere persone già disperate verso il nulla. Cosa resta a chi non ha più niente da perdere? La vendetta, la morte.
Ma il governo non se ne occupa. Non si interessa dei detenuti stranieri, che rappresentano ormai il 34% della popolazione carceraria. La farsa del rimpatrio nelle loro patrie galere non inganna più nessuno. E allora, perché non dotarsi di mediatori culturali, persone in grado di parlare la loro lingua, di provare a costruire un percorso riabilitativo anche per loro? Ma no, troppo complicato. Troppo umano.
Ci sono i malati, i cosiddetti “doppia diagnosi”. Quelli che dovrebbero stare nelle REMS, strutture sanitarie con sistemi di sicurezza e cure adeguate, invece sono ammassati nelle celle, abbandonati al loro destino. Il carcere è una catena di disperazione, e nessuno fa niente per spezzarla. I reparti sanitari sono pochi e fatiscenti. “Ma anche per i liberi è così”, dirà qualcuno. Vero, ma non può più esserci questa opposizione tra libero e detenuto. È una retorica sterile che non porta a niente. Non esistono più cittadini di serie A e cittadini di serie B.
Torniamo al carcere. E ci rendiamo conto che non c’è più nessuno a parlare di carcere. Non c’è più nessuno che si interessi di quello che succede dietro quei muri. L’unica cosa che conta è che nessun uomo di potere ci finisca. Il resto? Il resto può attendere. E la vita non scorre. O scorre malissimo.