Anche l’operaio vuole il figlio dottore (La Nuova Sardegna, 25 agosto 2018)
Anche io sono cresciuto in una famiglia che voleva i figli “studiati”. Mio padre, operaio, con occhi densi di sudore, ci teneva a poter dire di avere un figlio “dottore”. Sarà per questo, probabilmente, che dopo la sua morte, avvenuta quando io avevo solo tre anni, che mia madre mi ha “ammaestrato” alla scuola. S’iscola, era per me un luogo bellissimo perché potevo incontrare altri bambini con i quali si continuava a giocare anche la sera, per strada, perché le automobili non avevano ancora acquistato tutti gli spazi. La mia scuola era comodissima da raggiungere, praticamente davanti casa e il mio mondo era la tivù dei ragazzi ma, soprattutto, l’Odissea, lo sceneggiato originale, in bianco e nero, che veniva trasmessa la domenica dopo Carosello.
Nessuno mi aiutava a svolgere i compiti. Mia madre aveva frequentato le scuole elementari negli anni del fascismo ed era bravissima solo in matematica. Il mio esatto contrario. Avevo una nonna appena scolarizzata e un nonno analfabeta da parte di madre e una nonna analfabeta da parte di padre. Avere un “fizu duttore” rappresentava, per loro, il salto di qualità, il poter dire, a tutti, di essere entrato nella porta giusta della vita. Io amavo molto quel mondo colorato in maniera diversa. Perché, a differenza di alcuni compagni di classe io non parlavo il sardo ma mi cospargevo di tanti “sardi” e di molte “sardità”. Mio padre gallurese e mia madre logudorese avevano deciso che i figli avrebbero parlato l’italiano.
Erano gli anni sessanta, quelli della “modernidade” e parlare la lingua dello Stato rappresentava un primo passo verso l’emancipazione. Io sono cresciuto ascoltando i miei nonni che parlavano il logudorese con mamma. Mio nonno, inoltre, parente lontano del Cubeddu poeta, mi insegnava il sassarese e alcune poesie in logudorese. D’estate, invece, trascorrevo le vacanze negli stazzi galluresi e mia nonna paterna parlava solo quella lingua. Poi, rientravo ad Alghero dove, con gli amici parlavo il catalano. La mia adolescenza è stata costruita tra l’italiano, il logudorese, il gallurese e l’algherese. Ci ho scritto pure qualche poesia in sardo e in algherese. Continuavo a studiare in italiano e ho amato la Deledda, Satta, Dumas e Salgari. Ho letto molto in quegli anni e ho scoperto che la lingua era uno strumento per comprendere, ma dovevi saperla dosare. Ho, nel mio personale cassetto di parole, locuzioni e modi di dire in diverse lingue e li uso “alla bisogna” o quando mi trovo nei contesti giusti. Perché la “visione del mondo” non è solo ed esclusivamente sapere le cose e saperle bene.
La visione del mondo è comprendere i diversi mondi e i diversi modi di vivere e di vedere le cose. Io continuo, da “studiato” a leggere, ad avere un consistente patrimonio di libri, ad amare i racconti e i romanzi, ma capisco che tutto il nostro patrimonio genetico culturale è frutto di molte stratificazioni. Non basta la letteratura, serve anche l’antropologia. E’ vero, come sostiene Marcello Fois che siamo stati figli “di una generazione che aveva più paura dell’ignoranza che della scuola” ma è anche vero che siamo cresciuti con una moltitudine di colori e di suoni che oggi, nel mondo veloce di internet, non ci sono più. Mi fa paura quando sento qualcuno che vuole “obbligare”, per legge, l’insegnamento del sardo nelle scuole. E’ come un trapianto di un arto in un essere invertebrato. Non funziona.
Dovremmo, se ancora ci riusciamo, provare a parlare, naturalmente, ai nostri nipoti l’italiano e il sardo. Non significa riportare al gregge il proprio cucciolo, ci mancherebbe. Significa, invece, raccontare che esistono lingue e modi di dire a volte intraducibili e rappresentano la nostra identità. Non dobbiamo avere paura del nostro passato e non dobbiamo avere paura di poter costruire un futuro con le vecchie parole dei nonni. Che sono modi di dire e modi di vivere. Io penso e scrivo in italiano. Ma quando sorrido, mi indigno, o scruto l’orizzonte lo faccio in sardo. Con quale sardo dipende dall’orizzonte che ho davanti. E mi piace naufragare in questi “sardi”.
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