12 agosto 2016 –
Bisogna saper entrare sempre in punta di piedi dentro le storie tristi e stare e stare attenti a non farsi avvolgere dal dolore e dalla pietà. Le notizie estive sono sempre alla ricerca dei racconti sulla solitudine, sull’abbandono, sul tentativo di incuriosire attraverso sensazioni forti che rinfreschino l’anima. D’estate si ha la necessità di abbassare la guardia sulle cose complicate, le lunghe giornate trascorrono sulle onde di una sparuta leggerezza, accompagnata da una esile ma necessaria futilità. Tra le notizie ci si appassiona solo a quelle che raccontano qualche delitto incomprensibile, alle ferie dei vip, all’immancabile calcio mercato e alle parole crociate sotto l’ombrellone. Così, quando passa tra le pagine interne di un quotidiano una notizia battuta in poche righe da un’agenzia, non ci soffermiamo moltissimo. Quella notizia però ci dovrebbe interessare non tanto per il fatto in sè, ma proprio perché cammina tra i binari della nostra indifferenza. Si muore anche d’estate. Certo. Dipende come. Se tragicamente ci soffermiamo. Siamo sempre disponibili a raccoglierci almeno un attimo davanti ad un incidente, un annegamento, una morte improvvisa. E’ giusto. E’ naturale. Anche d’estate. Però quella notizia di una donna che non si rende conto di accudire il proprio marito ormai morto da due mesi non la possiamo incastrare nella casella della tragedia. Si rimane stupiti ed intorpiditi da una storia del genere. E’ accaduto a Brescia. L’uomo, 87 anni, era quasi mummificato e veniva creduto vivo dalla moglie di 70 anni, non lucida. Sono stati i vicini di casa a far scattare l’allarme a seguito del forte odore che proveniva dalla casa abitata dai due anziani. “Pensavo fosse vivo”, ha detto la donna agli agenti di polizia che hanno bussato alla sua porta. Una storia del tutto italiana, italianissima, che nessuno ha avuto voglia di raccontare con dovizia di particolari. La coppia non aveva figli e la donna, probabilmente, soffriva di disturbi psichici. Ecco. E’ la storia del nostro fallimento, del nostro non saper più ascoltare, di non riuscire ad annusare le vite di chi ci sta accanto, compressi come siamo a leggere quelle di “amici virtuali” nei nostri smartphone e nei nostri tablet. Due signori soli che, magari, utilizzavano solo il telefono con i fili e solo raramente, guardavano la televisione e uscivano solo per acquistare qualcosa in un supermercato. Storie così, minimaliste, piccole, di famiglie normali, che sembrano non interessare più a nessuno. Ci rendiamo conto della loro mancanza solo perché sentiamo uno strano odore. Di morte. Non sentiamo, invece, il tanfo dell’abbandono, del totale menefreghismo dove siamo lentamente decaduti. Oggi, nelle nostre città, dentro le nostre case sempre più piccole e sempre più sole, non c’è più spazio per i racconti, per le parole. Non c’è più il tempo e la curiosità per ascoltare. I nostri vicini solo solo fisicamente confinanti ma non conosciamo più le loro storie, non ci interessa più sapere delle piante, del gatto, della signora, del nipote. Non siamo più dentro le vite reali.
Siamo sempre tragicamente orientati verso un futuro che ci attanaglia, verso un domani che sembra già passato, verso una solitudine immensa. Noi non parliamo più, non viviamo più il quartiere, non viviamo più la città. Per sentirci attivi ci basta andare in quei perimetri di colori inutili che sono i centri commerciali dove gironzoliamo apparentemente appagati. Funziona tutto maledettamente bene da quelle parti. Non ci sono quei due signori di Brescia che, mano nella mano, provano a sopravvivere, provano a dire: esistiamo anche noi. “Pensavo fosse vivo”, ha detto la signora. Non si muoveva. Non parlava, non sentiva. Un po’ come il nostro modo di essere: apatico e lontano. Indifferente.
Questo articolo è stato scritto il venerdì, Agosto 12th, 2016 at 16:56
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Tags: indifferenza, razzismo
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