La divisa è un segno di distinzione e di appartenenza. E’ l’emblema di un gruppo che genera corporativismo e fedeltà assoluta.
Per le uniformi si combattono guerre contro – per dirla con De André – quelli con la divisa di un altro colore.
Mi ha fatto riflettere la polemica innescata da alcune sigle sindacali della polizia penitenziaria contro la scelta di autorizzare delle scene di un film all’interno di un carcere dove – ed ed è questo il problema – un ex detenuto ha vestito, come attore, l’uniforme del poliziotto penitenziario.
Il sindacato chiarisce che l’oggetto del contendere non è la fiction girata nel carcere di Poggioreale ma piuttosto la tutela degli appartenenti al corpo di Polizia Penitenziaria in quanto non avrebbero mai immaginato che: “a rappresentare l’immagine del nostro delicato lavoro in qualità di poliziotti al servizio di questo Paese fosse addirittura un antagonista, ne possiamo pensare che il personale lo tolleri”. Il sindacato ha poi aggiunto che l’ex detenuto ha dichiarato che; “è stata solo un’occasione professionale, visto che oggi nessuno vuol offrire un impiego agli ex detenuti. Se qui c’è qualcuno che ha infangato la divisa quello di certo non sono io”.
Il sindacato, rivolgendosi al Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, chiede sostanzialmente una riflessione su quello che ritengono una caduta di immagine. Ritengo che alcune piccole considerazioni vadano fatte perché il fatto, seppure minimale, pone l’accento su molte questioni che riguardano l’etica e il rispetto delle regole in senso sostanziale.
Nel film “il grande sogno” il regista Michele Placido racconta, almeno nella prima parte, la sua personale esperienza di poliziotto figlio del Sud che arriva a Roma negli anni caldi della contestazione studentesca. Capirà che la sua voglia è voler intraprendere la carriera di attore ma, come gli ricorderà un ex collega: “sarai sempre un poliziotto”. La divisa è una cosa seria. Lo ricordava con orgoglio e onore il generale Dalla Chiesa: la divisa rappresenta lo Stato e rappresenta, soprattutto, chi quello Stato lo ha difeso fino a sacrificare la propria vita.
Quando, da giovane funzionario, nel 1984, mi recai a Roma presso la sede del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, rimasi fortemente scosso da un elenco lungo di nomi con una data vicino che campeggiavano in una lastra di marmo nell’androne. Quei nomi sono agenti di custodia (ed oggi poliziotti penitenziari) uccisi nell’adempimento del loro dovere svolgendo un lavoro il più delle volte silenzioso, nascosto, pericoloso, a contatto con uomini che hanno sbagliato e che, in molti casi, sono senza scrupoli. Alcuni di quei nomi sono diventati famosi, grazie alla volontà di qualcuno che ha voluto titolare caserme, penitenziari, motonavi. Alcuni di quei nomi fanno parte della mia memoria e, seppure non sono poliziotto penitenziario, ne vado fiero e orgoglioso: sono uomini dello Stato che mi rappresentano.
Questi poliziotti, tutti i giorni, sono a contatto con detenuti e provano, con fatica ma con professionalità, a gestire non solo l’ordine e la disciplina all’interno dei penitenziari ma, collaborando con gli operatori pedagogici e del servizio sociale, tentando un processo rieducativo con il detenuto che rimane solo un uomo che ha sbagliato. Essere reclusi è una condizione e una conseguenza legata al reato commesso, ma quell’uomo non può e non deve essere considerato mai un antagonista. E’ un grave errore e non è in linea con quanto previsto dall’articolo 27 della Costituzione. Quell’uomo può intraprendere un percorso che lo può portare all’inclusione sociale definitiva. I passaggi per riuscirci sono molteplici: dalla scuola, al lavoro, allo spettacolo. Diventare un attore è un’opportunità. Quell’ex detenuto che ha vestito la divisa del poliziotto penitenziario non è più un recluso: è un uomo libero. Dovremmo essere soddisfatti di aver contribuito a salvare una persona che si è macchiato di alcuni delitti. Lo Stato include e se la divisa serve a salvare un uomo c’è da andarne orgogliosi.
18:51 , 12 Gennaio 2019
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