L’odore del sangue e dell’incredulità. Nella città di Grazia Deledda. Tra le parole e i silenzi, tra il rumore di un vento che non trasporta e non spazza via il dolore. Che, almeno per questa volta, non è diviso a metà. Non ci sono vittime e carnefici. Non questa volta, almeno. Solo immagini che non quadrano all’interno di un quadro familiare semplice, normale, tradizionale.
Ecco: il primo strato delle domande incappa in qualcosa di inverosimile. Tutto era perfetto o, comunque, normale. Tutto era all’interno dei binari di una famiglia come tante. Lavoro, scuola, sport, televisione, tavola apparecchiata, baci e abbracci nelle feste comandate. Il sangue ha camminato in solchi non previsti. Nella città di Grazia Deledda: tra le canne al vento e le innumerevoli solitudini di donne e uomini che stanno insieme ma non comunicano.
Ci sono state molte analisi: quelle a caldo, legate all’amore per le armi dell’assassino suicida, e quelle fredde, costruite dal vociare delle comari, della gente, dei vicini che qualche sussurro lo avevano capito, percepito, annusato. Ma non era vero.
C’è sempre una scenografia classica davanti agli episodi di cronaca nera. C’è sempre la ricerca di un movente, di un perché. Ci serve, non per comprendere, ma per giustificare le nostre angosce. Non è possibile che certe cose accadano senza un perché. Ci costruiamo strade che non ci sono, viottoli impervi dove ci arrampichiamo con risposte sbagliate, contorte, inutili ma salvifiche. Non ci piace questo orrore quotidiano, questa distruzione che nasce all’interno di un nucleo che dipingevamo protetto, inattaccabile.
Non ci piace chi prova a scavare nei silenzi dell’incomunicabilità; non amiamo chi passeggia tra le carcasse dei però, dei forse. Non sopportiamo chi dubita, chi prova ad ampliare il discorso oltre il fatto di sangue, oltre l’orrore. Non vogliamo soppesare i silenzi perché saremmo costretti a guardare dentro le tasche della nostra quotidianità, del raziocinio che si modifica a favore del “tutto subito”, del “qui ed ora”.
A freddo, dopo qualche giorno, non siamo riusciti a capire quel gesto. E, forse, non lo capiremo mai. Che senso ha premere un grilletto sulla vita di chi fino al giorno prima hai amato ed eri contraccambiato? Non ti bastava? Non eri sicuro? Cercavi qualcos’altro? Non lo sappiamo. E, paradossalmente, non servirebbe saperlo perché la conoscenza non aiuta a prevenire. Sarebbe troppo facile.
E allora dobbiamo ripartire dall’odore del sangue e dell’incredulità. Non ci sono baluardi. Non ci sono “normalità”, non ci sono “famiglie perfette”, non ci sono “sepolcri incontaminati”. L’odore del sangue racconta dell’imperfezione umana, della banalità del male che si annida non nei particolari, ma nella vischiosità delle situazioni quotidiane. Non cerchiamo il motivo scatenante, non scaviamo sulle vite prima della morte. Non ha senso e, soprattutto, è davvero di cattivo gusto guardare dal buco della serratura un semplice particolare, dimenticando che il quadro generale non è semplice da leggere. Da parte di nessuno.
Lasciate rassodare quel sangue, provate a dimenticare l’odore. Tenetevi stretto il sapore dell’incredulità perché, davanti a questo atroce scenario, è l’unica cosa che ci rimane. Non costruite analisi ardite, non arrampicatevi su posizioni difficili da sostenere. Non dite: “Era una brava persona, erano una coppia perfetta, lui sempre educato, forse troppo silenzioso, i ragazzi parevano spaventati, probabilmente c’era qualche screzio.” Non fatelo, perché è solo il tentativo di scavare dentro le vostre anime alla ricerca di quello che gli altri, un giorno, potrebbero dire di voi.
Non c’è soluzione al sangue degli innocenti. E neppure alla ferocia dei colpevoli. Quell’odore del sangue ce lo porteremo dentro. Forse per sempre. E non troveremo, mai, la giusta risposta.
Questo articolo è stato scritto il lunedì, Settembre 30th, 2024 at 09:57
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