Provate a sedervi davanti ad un ergastolano. Uno che ha il cuore pieno di carcere. Uno cui qualcuno, un giorno, ha deciso fosse lecito e giusto buttare la chiave della sua cella, ha deciso che dovesse contare e ricontare i giorni in un calendario senza fine. Provate ad immaginare l’eternità terrena piena di sbarre, di chiavi, di rumori sordi, di lunghi corridoi e di pezzi di cielo rettangolari dentro una vita obliqua. Provate a stare dentro una camera fatta delle stesse cose per una vita e poi, quando siete davanti a quell’uomo prigioniero per l’eternità, ditegli che tutto questo è il vostro senso della giustizia. Non ci riuscirete anche perché quello che vi troverete davanti non sarà mai l’uomo condannato per un reato efferato e inenarrabile. In questi giorni si riparla di ergastolo perché la Corte di Cassazione ha ribadito che una pena perpetua senza possibilità di soluzione è contraria al senso dell’umanità.
Sono questioni giuridiche molto complesse ma che, di fatto, consegnano per sempre questi uomini alla cella di un penitenziario obbligandoli a contare e ricontare i metri inutili di quella maledetta camera. Questo, secondo la Commissione Europea prima e la Cassazione dopo, non è dignitoso. Non lo è da sempre ma è stata una scelta maturata negli intarsi legislativi divisi tra passione e ragione. Un elastico che non dovrebbe mai essere usato quando si scrivono le leggi perché l’emergenza è destinata a modificarsi e quelle scelte rimangono. Un detenuto – che ho incontrato dopo anni in un recente convegno – salutandomi mi ha ricordato che io potevo parlare di queste cose perché ero entrato nel loro mondo soppesando il dolore. Lui è ancora detenuto, si sta per laureare e doveva intervenire al convegno per raccontare la sua esperienza. Non era condannato all’ergastolo ma sa benissimo cosa possa significare “fine pena mai”.
Chi commette un reato punibile con l’ergastolo ha il sacrosanto dovere di accettare quella condanna emessa dal popolo italiano. Di contro, quel popolo, non può permettersi di pensare che tutto è concluso, tutto è definito, perché gli uomini cambiano e cambiano anche gli ergastolani. Ne ho conosciuto molti di “fine pena mai” quelli con la pelle gonfia di galera, con il cuore socchiuso e gli occhi con uno sguardo senza orizzonte. Parlavano sempre con voce molto bassa, quasi a non voler disturbare. Cercavano tra le parole di chi incontravano una speranza. Non volevano essere perdonati, solo compresi. Perché il passaggio fondamentale in questi casi è proprio la comprensione: del reato, dell’uomo, dei fatti che giravano intorno al delitto, dell’acting out e dei passaggi successivi. Tutti, oggi, abbiamo idee diverse da quelle che avevamo nella nostra adolescenza. Si matura, ci si evolve e, a volte, si involve. Siamo tutti un oceano di situazioni e di emozioni: siamo flutti e scogli che si scontrano e non si può pensare che un ergastolano, per quello che ha commesso, debba far giocare le sue onde all’interno di una vasca da bagno. Non stiamo mettendo in discussione la pena: stiamo parlando dell’uomo che si può modificare e al quale, anche se ergastolano, è necessario dimostrare che lo Stato, con le sue regole, è migliore di chi un giorno lontano le ha infrante.
Se Non siete d’accordo una piccola proposta: leggetevi delitto e castigo di Fedor Dostoevskij nato proprio l’11 novembre del 1821. Quel libro riuscirà a trasportarvi dentro l’anima di chi commette un delitto. E’ la bibbia dei sentimenti, lo spazio giusto tra i buoni e i cattivi.
Giampaolo Cassitta – Sardegnablogger 11 novembre 2022
nella foto: detenuti al lavoro presso la Casa Reclusione dell’Asinara, 1938. (archivio Massidda)