Nel 2002 mi recai in Egitto. Era un sogno dell’infanzia poter vedere la Sfinge, le Piramidi, Abu Simbel, la valle dei Re e Luxor, dove esiste il tempio funerario della regina Hatshepsut a Deir el-Bahari.
Le piramidi hanno la bellezza incontaminata delle fiabe dell’infanzia, la Sfinge ha uno sguardo che ti colpisce: imponente e docile.
Solo apparentemente.
Il tempio funerario di Deir el-Bahari è una strada infinita verso un’ascesa che sembra non esistere perché si blocca davanti al monte nelle cui pietre è stato scavato. Ha l’imponenza – è il caso di dirlo – faraonica: vi è una rampa d’accesso lunghissima, dove sembra poter partire un aereo. Il tempio è un gioco di colonne e di terrazze dove, al suo interno, si conservano due cappelle dedicate ad Hathor e Anubi. Eppure, in quel caldo ottobre del 2002 mentre visitavo il tempio, nessuno parlava. C’era come un silenzio irreale. Era il ricordo di un massacro avvenuto il 17 novembre del 1997. Un gruppo islamico dalla Jihād Ṭalīʿat al-Fatḥ (“Jihad dell’avanguardia della vittoria”) attaccò dei turisti inermi che si trovavano a contemplare quel magnifico tempio.
Vennero uccise 62 persone e nella mattanza, all’interno del tempio, molte donne furono mutilate a colpi di machete. Perirono anche quattro coppie di giapponesi in luna di miele. Altri erano turisti svizzeri, britannici, tedeschi e colombiani. A quei tempi si viveva con le televisioni e i quotidiani. Non c’era la possibilità di dipingere il proprio profilo con la bandiera dell’Egitto. I morti apparivano più lontani. Eppure se osservate quella lunghissima rampa che accompagna lo sguardo tra la montagna e il tempio vedrete che in lontananza qualcosa si muove.
Il bagliore del sole probabilmente.
Ma anche il ricordo di vittime ormai dimenticate.
18:05 , 17 Novembre 2022
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