Chissà poi se al cospetto di Dio manterrà quegli occhi plasticamente scorretti e quello sguardo apparentemente distaccato e lontano. Chissà se riuscirà a raccontare quello che è stato il suo percorso terreno fatto di troppe curve e di valutazioni scellerate, se avrà il tempo per un sorso d’acqua che gli rischiari la voce e la renda più vera, se avrà un momento per ripensarci e per puntualizzare, per spiegare che tutto ciò che ha fatto forse non aveva un senso ma che, nella commedia della vita, era terribilmente necessario. Chissà poi se al cospetto di quel Dio egli otterrà risposte o soltanto un impertubabile silenzio di chi sa soppesare le storie. Lo stesso silenzio che a lui è servito per nascondere, in vita, troppi segreti in un paese obbligato a domandarsi quale può essere il senso della mafia e del male. Questo è stato Totò Riina per chi, come molti uomini di Stato, negli anni lo ha combattuto e per chi, dallo stesso orizzonte è rimasto incredibilmente inerme. Totò Riina è stata la contraddizione perenne, un ago di una bilancia con poche verità e troppe menzogne. Ha navigato in un mare terribile, movimentato, arrabbiato e scuro. Totò Riina ha rappresentato per anni il male assoluto, la combutta, l’intrigo, tutto ciò che nessuno vorrebbe essere, tutto ciò che nessuno vorrebbe rappresentare, tutto ciò che nessuno vorrebbe replicare. Totò Riina è stato il cattivo esempio per antonomasia, il disegnatore folle in una tela già sporca e utilizzata da altri, il profeta della strategia delle bombe. Per questo è stato condannato a molti ergastoli: perché non utilizzava le parole quando voleva imprimere le sue ragioni. E’ stato catturato e per qualche anno rinchiuso nel bunker speciale all’Asinara, nella stessa isola dove qualche anno prima avevano passeggiato alla ricerca della verità due uomini giusti come Falcone e Borsellino, nella stessa isola dove il silenzio era il rumore di sottofondo a tutte le storie da ricamare. Da quell’isola, da quella stanza monitorata dalle telecamere, da quel suo muoversi “goffo” dentro un monitor che lo osservava, da quel voler leggere a tutti i costi la vita di San Francesco, da quel voler far credere che anche lui, in tasca, qualche parola l’aveva, ha cominciato a percorrere strade strette e complesse, ha cominciato a rimettere nel paniere delle opportunità una sorta di dialogo con quello Stato che aveva combattuto. Ha scelto i pezzi peggiori, ha provato a far giungere i suoi pensieri a chi lo Stato lo rappresenta ma non è troppo degno, ha provato a rimescolare le storie, ha provato – senza mai riuscirci – a disegnare su una nuova tela con colori tenui. Così, sia per lui che per qualche altro mafioso ergastolano si è cominciato a discutere della crudeltà del regime previsto dall’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario regime che, guarda caso, nasce dopo la strage di Via Capaci e di Via d’Amelio dove persero la vita troppi uomini dello Stato, dove perse le speranze un paese anestetizzato dalla cattiveria e dal terrore costruito proprio da Totò Riina. Si è discusso sulla crudeltà di lasciare un uomo morente e malato in un’angusta cella e si è parlato di uno Stato vendicativo. Non era così e non poteva essere così. Totò Riina, come Provenzano, erano seguiti quotidianamente dai medici del carcere e venivano effettuati i normali controlli sanitari di routine. Riina è morto in un letto di ospedale, all’interno di un penitenziario perché la pena dell’ergastolo prevedeva questo. Chi dice che l’ergastolo è disumano dice il vero. Molti detenuti fruiscono di lavoro all’esterno, anche se scontano l’ergastolo, ma quei detenuti hanno cominciato un processo riabilitativo che Riina non ha neppure sfiorato. Ha mantenuto quegli occhi e quello sguardo, ha mantenuto, con superbia, quella convinzione di essere dalla parte del giusto, è sempre rimasto convinto che le discussioni servissero a poco e le parole si dovessero utilizzare soltanto dopo che l’aria era intrisa dell’odore dell’esplosivo e del sangue. Lo Stato, almeno stavolta, con dingità e fermezza ha vinto e Riina, meritatamente, ha scontato per intero la sua pena. Non c’è stato nessun accanimento e nessuna cospirazione nei suoi confronti, non c’è stata nessuna vendetta. La strada che ha portato alla morte di Totò Riina in carcere, seppure tortuosa, era quella giusta: una giustizia che sa soppesare le colpe e sedimentare gli eventi. Adesso cala il sipario e la pietà appiana le cose ma non i ricordi. La mafia non si dimentica e lo Stato, tutto lo Stato, non può permettersi di mollare in questa sacrosanta battaglia.
16:51 , 19 Novembre 2017
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