Sono scrittore, giornalista, blogger, dirigente di uno Stato che ho l’onore di rappresentare. Non mi nascondo, non mi sono mai nascosto e ho sempre preso posizione. Ho sempre ritenuto giusto esprimermi, dire la mia, raccontare le cose in un certo modo, avere la curiosità per comprendere le storie, le cronache, le vite degli esseri umani. Roberto Saviano lancia l’appello e prova a scuotere le coscienze. E’ una richiesta accorata la sua e rilancia – in un mondo dove tutti sembrano fregarsene beatemente – il ruolo dell’intellettuale, quasi una parolaccia in tempi di internet. Lo fa controcorrente, lo fa utilizzando molte pagine, puntualizza, chiarisce, prova a costruire un ragionamento all’interno di una fenomenologia complessa che non è, sia ben chiaro, l’andare contro Salvini e le sue decisioni ma è – almeno per come la vedo io – una richiesta di vitalità da parte di chi, sgomento dice: “è inutile, non ce la possiamo fare.” Non siamo alla deriva e non siamo davanti ad un qualcosa di definitivo. C’è la giusta preoccupazione che l’intellettuale, in quanto critico, deve necessariamente avere nei confronti del potere, di qualsiasi potere. Essere scrittori comporta una scelta. La costruzione delle storie può partire dalla realtà (nel mio caso, ben tre libri prendono lo spunto da quella che è stata definita da Sergio Zavoli la notte della repubblica) oppure si possono raccontare sogni, desideri, storie di uomini o gettarsi a piene mani dentro un passato che non c’è più. Scrivere però detta i tempi al narratore che non può, anche se racconta un’avventura su Saturno, esimersi da quello che lo circonda. Ogni scrittore è un’isola, ma nell’arcipelago della scrittura circumnavighiamo tutti. Leggere Marquez e leggere Pasolini sembrano scelte diametralmente opposte ma non è così: entrambi raccontano di uomini e di scelte coraggiose. Il colonello Buendìa è un po’ il ragazzo di vita pasoliniano, è vicino alla nostra storia più di quanto possiamo immaginare. Cosa c’entra tutto questo con il messaggio di Roberto Saviano? Credo che lui ci chieda di essere liberi, attivi e partecipi, di essere, quindi, protagonisti. Non di alzare la voce ma di utilizzare la voce della scrittura per raccontare ciò che sta accadendo. C’è stato il tempo di Berlusconi in cui tutto pareva semplice e definito: i cattivi erano “loro” e i buoni erano quelli contro il Presidente del Consiglio e i suoi adepti. Loro dicevano che non avrebbero fatto prigionieri e noi, i buoni, ci andavamo contro con forza, con vigore, a volte scendendo in piazza a fare i girotondi, a volte indignandoci per le leggi che erano dipinte su misura per il capo. Tutto facile. Gli intellettuali e quindi gli scrittori, i giornalisti, i filosofi erano schierati e quasi tutti facevano parte della congregazione dei cosiddetti “buoni”. Poi, una volta sconfitto il caimano, (direi solo apparentemente) si è pensato che il sonno della ragione potesse giovare: la fatica, d’altronde era stata tanta. Credo però – ed è l’unico appunto che faccio a Saviano e alla sua lunga e interessante disamina – che egli non abbia tenuto in debito conto di ciò che è stato non Berlusconi, quanto il berlusconismo e, in maniera più dilatata, l’antiberlusconismo. Non era solo una battaglia sulle leggi “ad personam” ma era, invece, un lentissimo allontanamento dalla politica attiva. Berlusconi, uomo d’affari e dai modi spicci ci raccontava: “non vi preoccupate, faccio tutto io”. Non era vero perché la macchina del governo era ed è una cosa molto complessa, ma gli italiani, moltissimi italiani, ci credevano. Quegli stessi che continuarono a crederci e a votare lui e i suoi accoliti. Salvini non ha fatto altro che utilizzare gli stessi mezzi di Berlusconi con un qualcosa che il tycon italiano non aveva: la nullafacenza. Se Berlusconi parlava da imprenditore, da capitano d’industria, da uomo capace di risolvere qualsiasi cosa, Salvini ha utilizzato un altro metro: l’ha buttata sul campo della semplicità, delle cose che tutti possono fare e ha giocato con pochi e rozzi termini per continuare ad ottenere il consenso della gente: anzi, ha raccontato che lui, uomo semplice ce l’avrebbe fatta, ci sarebbe riuscito. La trappola tesa da Salvini è servita per “acchiappare” anche i cinquestelle, convintissimi che la meritocrazia passi solo attraverso l’impegno nella rete e nell’onestà, parola alquanto semplice e complessa nella quale tutti, anche i mafiosi, potrebbero – ognuno a suo modo – immedesimarsi. Lo scontro non è dunque tra noi e Salvini, (e su questo concordo con Roberto Saviano) non è e non può essere legato ai seicentomila immigrati presenti in Italia che certamente devono essere regolarizzati subito, il livello dello scontro è sulla gestione del potere che questo governo effettua con forza e decisione. Mi ha colpito, moltissimo, il richiamo del presidente della Repubblica Sergio Mattarella ad un decreto di conversione di questo governo. Non mi hanno colpito però le giuste osservazioni effettuate dal Capo dello Stato ma il gioco perverso utilizzato da alcuni internauti che, subito, hanno avuto da obiettare, chiaramente non conoscendo assolutamente nulla del contenuto e dell’atto del contendere, ma contrapponendo alle osservazioni un’altra osservazione: “Nel decreto c’erano solo degli articoli in più, sempre a favore dei terremotati, quindi dei più poveri, quindi Mattarella è un difensore delle lobby”. La mobilitazione degli intellettuali, degli scrittori, dei giornalisti e dei blogger non è semplicemente parlare al proprio pubblico anche perché è difficile, per uno scrittore, comprendere chi è il suo pubblico che penso sia piuttosto trasversale. La mobilitazione non è neppure raccontare da che parte si sta, anche perché non è detto che gli intellettuali, giornalisti e scrittori siano sempre dalla parte giusta. La mobilitazione, io credo, è sul linguaggio. Far comprendere spiegando con calma e senza stancarsi di cosa sia avvenuto in questi anni, di come funzioni l’apparato dello Stato, di come sia semplice prendersela con gli ultimi (i migranti, i malati, i pensionati, i ladri albanesi che svaligiavano le ville in Brianza) e di come, invece, sia difficile porre le basi per un’analisi seria di ciò che sta accadendo nel nostro paese e intorno a noi. Il ruolo dell’intellettuale è quello di provare non a cercare le strade (quello è, semmai il ruolo della politica) ma di utilizzare le torce per illuminare quei percorsi. Quando Roberto Saviano, alla chiusura del suo appello ci dice, parafrasando Vasillj Grossman, che il piccolo seme dell’umanità sono gli intellettuali, mi trova parzialmente d’accordo: il seme è racchiuso nelle tasche di tutti. Il problema è far capire come piantare quel seme affinché germogli. Sono scrittore, giornalista, blogger, dirigente di uno Stato che ho l’onore di rappresentare. Non mi nascondo, non mi sono mai nascosto e ho sempre preso posizione. Sono convinto di possedere una piccola torcia che serve a controllare il cammino. Non ho una bussola e mi sono abituato a controllare le stelle e, insieme a Pier Paolo Pasolini sono profondamente convinto di una cosa: il ruolo di un intellettuale è quello di “esercitare prima di tutto e senza cedimenti di nessun genere un esame critico dei fatti. (…) Non esiste razionalità senza senso comune e concretezza. Senza senso comune e concretezza la razionalità è fanatismo”. Da questo dobbiamo partire senza dimenticare che l’impegno totale deve coinvolgere le masse, ovvero il popolo e deve fare un tentativo per comprenderlo questo benedetto popolo, per capire tutte le condizioni ambigue, a volte contradditorie, ingloriose e perfide che questo tempo ci ha riservato. Gli intellettuali devono scendere in campo impegnandosi nel comprendere i fenomeni sociali, tenendo sempre presente (ed è ancora Pasolini a ricordarcelo) che i problemi di un intellettuale appartenente all’intelligencija “sono diversi da quelli di un partito e di un uomo politico, anche se magari l’ideologia è la stessa”. Mi sembra un buon punto di partenza, insieme al lungo articolo di Roberto Saviano. Parliamone.
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Questo articolo è stato scritto il giovedì, Luglio 26th, 2018 at 18:44
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Tags: intellettuale, politica
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