Capisco che l’argomento è peloso, contorto, di difficile digeribilità. Però ci voglio ritornare anche perché sono stato io, all’atto della sua presentazione in carcere a scrivere “Chapeau”. Stiamo parlando della costituzione a Rebibbia di Salvatore Cuffaro, condannato ormai definitivamente alla pena di sette anni di reclusione.
Costituirsi non è un gesto eroico eppure, in ogni caso, ci vuole coraggio. Poi, che Cuffaro sia stato condannato definitivamente per un grave reato, lui, che è stato uomo delle istituzioni e che, quindi, consegnandosi alla giustizia ha solo compiuto un gesto normalissimo, è pacifico. Figuriamoci. Infatti non voglio parlare dell’enormità o della naturalezza di quel gesto. Voglio parlare della pesantezza degli anni di carcere che, sugli uomini, vorrei rimarcarlo, sono sempre uguali.
Non si gioisce perché qualcuno debba scontare la pena in un istituto penitenziario. Si dovrebbe, semmai, gioire dell’esatto contrario. Sarebbe bello, infatti, che non ci sarebbe –nel mondo, mica solo in Italia – della necessità del carcere, della reclusione, del rinchiudere uomini e donne in pochi metri e costringerli ad immaginare un mondo che fuori continua a camminare. Perché questo è il senso che opprime: la consapevolezza di fermarsi, di bloccare i propri istinti, di raffinare l’ansia e l’angoscia, di gettarsi in un non luogo dove è difficile pensare, riflettere, comprendere.
Cuffaro ha commesso un grosso delitto e, da uomo delle Istituzioni quale è stato deve necessariamente pagare. Ci siamo dati delle regole. Le dobbiamo rispettare. Sempre e comunque. Ma la regola alta che ci siamo scolpiti è quella legata alla possibilità che la pena, qualsiasi pena, debba essere utilizzata per modificare l’uomo che l’ha commessa. Ho scritto molto sull’uomo e sull’uomo detenuto. Sono profondamente convinto che la cattività non aiuti gli individui e che il carcere debba essere – seppure a volte necessaria – una parentesi in cui vi sia la possibilità di un riscatto. Cuffaro che si è costituito e ha quindi rispettato, da subito, la sentenza, ha cominciato un lungo percorso che lo porterà a confrontarsi prima con se stesso e poi con gli altri. Troverà storie minime, a volte dimenticate e da dimenticare, troverà solo curve nel suo cammino e proverà l’ansia e l’angoscia, aspetterà il solco di un sorriso dei suoi familiari, l’attimo di un abbraccio.
Qualcuno ha affermato che tanto ci starà poco in carcere, che ha fatto i suoi conti e che tra indulto, arresti domiciliari e quant’altro, al massimo ci starà qualche mese. Non voglio annoiare nessuno in inutili tecnicismi. I reati commessi portano però a negare molti dei benefici avocati con troppa semplicità. Questo s<tato, nonostante tutto, le regole contro la mafia se le è date e sono rigide. Anche per Cuffaro. Ma, in ogni caso quei giorni, quei mesi, quegli anni restituiranno un uomo diverso. Non sono in grado di dire se positivamente diverso, ma son sicuro che il detenuto Cuffaro sta vivendo momenti duri e solitari. Che, in questo momento merita. Ma lo Stato non ammette vendette. Solo giustizia. Auguro al detenuto Cuffaro Giuseppe che la pena sia solo una parentesi seppure dolora, seppure fortificante, seppure necessaria, ma una parentesi della sua vita e che fra sette anni (con il beneficio della liberazione anticipata che comunque auspico) possa uscire da quella porta che aveva varcato e sentirsi più leggero e più uomo,
Cagliari, 25 gennaio 2011