Ho sempre amato Paolo Rumiz e il suo gusto per raccontare il viaggio quello che, per dirla con Saramago, non è mai definitivo. Ecco, questa sua leggerezza, mista ad una pignoleria che Rumiz pone sull’attenzione alle piccole cose, mi ha semp…re entusiasmato e da anni lo seguo, nei suoi viaggi in Italia e nel mondo. So – e lo so perché ho viaggiato – che gli sguardi hanno orizzonti diversi e ognuno di noi, quando guarda, quando assapora i colori e la gente e gli umori, lo fa con la sua personalissima valigia delle emozioni.
Sua e di nessun altro.
Sapevo, dunque, che il viaggio all’Asinara era un banco di prova non per Rumiz, ma per me e chi per come me, in quell’isola c’era stato. La prima parte del racconto è molto bella e affascinante. Rumiz ci strasporta con la consueta leggerezza e densità verso i luoghi di una memoria scomparsa. Lo racconta molto bene il silenzio e lo mischia con il mare. Poi, verso la fine diventa giornalistico, didascalico e prova a raccontare cose che “qualcuno” gli ha riportato ma rimane scrittore e non pensa, come dovrebbe invece fare il giornalista, di verificarle. Non lo fa e quindi scrive che ci fu “lo sgombero forzato del 98 e che aveva lasciato segni terribili. Vetri e materassi sfondati, mobili a pezzi, nidi di colombi. Per terra sacchi della posta, un gatto morto, schedari…. Non era un semplice abbandono., era una furia demolitrice.” Mi chiedo: è lui che vede questo o gli viene raccontato? E’ importante ed è la differenza sottile che esiste tra il giornalista e lo scrittore. Se Rumiz ha licenza poetica va bene, ma se voleva soffermarsi su una visione molto negativa una cosa la deve spiegare, molto semplicemente: pensa, davvero che i nidi di colombo, il gatto morto siano lì dal 1998?. E se ci sono ancora schedari vetri e materassi sfondati, possibile che con tutti i progetti e i finanziamenti ottenuti per la bonifica, in tredici anni l’ente parco non sia riuscito ad eliminarli? Ma poi, perché si continua a raccontare la favola (meglio, chi è che la racconta?) che ci fu lo sgombero forzato? Sarebbe anche abbastanza paradossale, visto che lo Stato non sfratta se stesso. Ci fu la chiusura e fu decisa per tempo. “28 febbraio 1998”. Ci furono dei problemi, è vero, ma nessuna forzatura. La chiusura dell’Asinara fu vissuta con tristezza o con gaiezza ma non come una forzatura. Le guardie, al momento dello sfratto (nessuno è stato sfrattato ma è stata applicata semplicemente una legge) non pensarono: “Se questo posto non possiamo averlo noi, non sia nemmeno di altri”. E’ poeticamente forte ed è molto attraente l’idea che in quattro si suicidarono tra guardie e detenuti. Ma è un romanzo, non la realtà. Ecco dove non capisco Rumiz: questa è una bufale bella e buona e non serve per comprendere il perché l’Asinara fu fatta a pezzi. Ma non dagli agenti, bensì dai signori del parco che, ancora oggi lasciano un’isola in condizioni davvero devastanti. Sono loro che hanno costruito un deserto e lo hanno chiamato Parco. Rumiz non ha visisato l’Asinara quando c’era il carcere. Avrebbe avuto, sicuramente, altre percezioni.
Mi è sempre piaciuto Rumiz e continuerò a leggerlo, ma è molto bravo quando ci racconta il viaggio e l’armonia delle cose, degli accadimenti, dei sogni,dei rumori e dei silenzi. Un po’ meno bravo quando prova a fare il giornalista senza controllare le fonti. Non si scherza sulla memoria e non si riportano frottole che qualcuno gli ha raccontato: non si è suicidato nessuno né tra i detenuti e né tra gli agenti. Poteva essere, magari una trama per un libro sull’Asinara, un bel canovaccio, certo, ma per raccontare i fatti occorre verificarli: Muniz lavora nello stesso giornale che fu di Beppe D’Avanzo. Ecco, vada a leggersi la puntigliosità chiara e precisa di quei resoconti. Oppure decida di ributtarsi nella poesia del viaggio e nella fatalità delle fole e delle leggende. Come quando racconta mirabilmente di Malara che aveva il marchio delle tre A nel cognome: come l’Isola Asinara. Mi è piaciuto molto perché, è l’evocazione epica che fa innamorare il lettore.E Rumiz,quando vuole, sa essere un buon affabulatore. Non in questo caso.
L’asinara, oggi, è uno scoglio deserto che urla. E non sono gli asini o i gabbiani a farlo. No, sono anche le voci di chi ci è stato ed è stato dimenticato: ecco cosa è successo veramente. C’èstato lo sfratto della memoria e lo hanno attuato i signori del parco.
Ecco l’articolo di Paolo Ruiz, apparso su La Repubblica del 3 agosto 2011
L’ex carcere di Fornelli per mafiosi e terroristi, la casa dove Falcone e Borsellino prepararono il maxi-processo, l’ossario dei soldati austriaci catturati nella Grande Guerra. Ma dallo sgombero di una dozzina d’anni fa, la natura e la devastazione si sono riprese l’isola, che oggi sembra popolata solo di leggende nere, cavalli bradi e asini albini“Aveva un carisma dimesso e uno sguardo attento”. Dopo qualche sorso di mirto, una sera di rondini ad Alghero, il dottor Giovanni Pirisino cominciò a parlarmi di Riina. Lo aveva curato al carcere dell’Asinara con altri super-detenuti. Per dargli le pillole contro il mal di testa doveva aprirgliele una per una, perché lui non si fidava. Altra cosa era il cognato di Santapaola, cui gli altri detenuti siciliani facevano il letto per deferenza. Ma i più speciali erano detenuti sardi, che non ricorrevano mai al medico e si barricavano nei loro silenzi.
Asinara, quel nome di isola suonò come un raglio tremendo dal mare, con le sue tre A piene di vento. Il carcere era chiuso da oltre un decennio. Chissà cos’era rimasto della quarantena o dell’approdo di Falcone e Borsellino alla vigilia del maxi-processo. Da tempo volevo vedere quel luogo profumato di brughiera e salsedine, spazio selvaggio di semilibertà che accomunava carcerati e carcerieri. Me ne aveva parlato per primo un compagno di classe al liceo, che vi era nato nel ’46. Figlio di un dirigente carcerario, si chiamava Pino, cognome Malara, aveva anche lui il marchio delle tre A nel nome e aveva tratto un indomabile istinto libertario proprio da quel luogo-simbolo della galera. Ma le storie più belle le raccontava Paolo, il fratello maggiore. Dopo una vita di traslochi – era ufficiale degli alpini – si aggrappava a quel brandello di terra come a Itaca, l’unica cosa ferma della vita. Rievocava scorribande di un’infanzia brada e sapeva dirti con minuzia lo sbarco dei naufraghi della corazzata Roma, affondata a poche miglia.
Partii subito, divorato dalla curiosità. Dall’imbarco di Stintino l’isola era ferma nel vento, contorta e color viola. Claudio Meucci, un sardo di pelo rosso, aveva messo il “purceddu” allo spiedo nel giardino di casa e invitato amici. Asinara era a mezzo miglio, ma lui aveva potuto metterci piede solo nel 1999, a storia finita. L’emozione, disse, era stata pazzesca. Punta Scorno, col suo faro, aveva svelato un concentrato di profumi e rocce primordiali, davanti al mare arato dalla tramontana. Ma il luogo era deserto. Asinara era già allora l’isola disabitata più grande del Mediterraneo.
Quella sera il vino propiziò i racconti. Evocammo guardie a cavallo sulla battigia, l’evasione del galeotto portato in gommone dalla moglie, e la cattura di altri, finiti in roveti per conigli. Ah l’Asinara, sospirarono in molti quella sera. Era la grande madre, perché era stata l’isola a generare il villaggio di Stintino in terraferma, e non viceversa. Era accaduto nel 1885, quando lo Stato aveva voluto l’isola, e 45 famiglie di pescatori dovettero andarsene e fondare un paese nuovo. “Non sono nata all’Asinara, ma mio nonno sì, e a me basta per sentirmi isolana”, disse Luisa Benenati prima di abbandonarsi a storie di camosci, asini albini e detenuti-giardinieri. “Quando il levante bloccava l’isola tutti diventavano detenuti, anche le guardie”.
La mattina partimmo a vela, col “Giribe terzo” di Antonio Fresi, pilota dal profilo greco, guardiaparco con permesso di attracco all’isola. In un mare piatto, da delfini, passammo luoghi di leggenda. La croce di ferro piantata dagli esuli dell’Asinara, l’ex tonnara, l’Isola Piana dove la famiglia Berlinguer in autunno portava le vacche, legate con una corda a una barca a remi. E poi lo stretto di Fornelli, un tempo segnalato da fuochi, passaggio millimetrico popolato di relitti. Tutto in due miglia. Dall’altra parte c’era l’isola e Antonio cominciò a raccontare. “Qui i detenuti facevano il bagno, zappavano la terra, giocavano a calcio. Molti piansero quando dovettero andarsene”. Asinara era l’antitesi di Lampedusa.
Si levò il maestrale, la barca si inclinò e fece un bordo davanti alla casa di Falcone a Cala d’Oliva, poi attraccammo a Cala Reale, dove cominciò il grido degli asini albini. Razza endemica dell’Asinara senza alcun nesso al nome del luogo, trottavano fra i ruderi della quarantena e palazzine popolate di cardi. Chiesi se fossero in fregola e Claudio rise che gli asini sono sempre in fregola, non c’è stagione che tenga. In assenza di umani, erano i padroni del territorio e se lo contendevano con morsi e ragli strazianti. C’erano anche cavalli selvaggi al galoppo, e un asino che li inseguiva affannato. Forse fiutava le femmine, forse credeva di essere lui stesso un cavallo. Fatto sta che il branco signorilmente rallentava per non lasciarlo indietro.
Vanamente cercai i segni dell’epopea di quella Cayenna tirrenica. La natura e la devastazione si erano mangiate tutto in dodici anni appena. Alcune celle erano state trasformate dal parco in centro ambientale. Gli orti e i campi di grano pettinati dal vento erano spariti. Il mulino, il forno, la scuola, il mattatoio erano ruderi. Le scritte dei detenuti cancellate come una vergogna. Le brande buttate.
Salimmo alle case delle guardie per un viale di escrementi e mosche. Lo sgombero forzato del ’97 aveva lasciato segni terribili. Vetri e materassi sfondati, mobili a pezzi, nidi di colombi. Per terra sacchi della posta, un gatto morto, schedari, un volume con nomi di ministri estinti, Scelba, Spagnolli, Ferrari Aggradi. Non era semplice abbandono, era furia demolitrice. Nessuno voleva mollare quel paradiso, Asinara significava Roma lontana, pesce e formaggio gratis. Le guardie al momento dello sfratto pensarono: “Se questo posto non possiamo averlo noi, non sia nemmeno di altri”. Così, in silenzio, Asinara fu fatta a pezzi. In quattro si suicidarono, tra detenuti e guardie. Ed era forse la vendetta del tempo per la deportazione di cent’anni prima.
In fondo alla baia, verso ovest, campeggiava una torre bianca. Con la residenza reale appena restaurata, sembrava l’unica cosa intera dell’Isola. Ce ne andammo in silenzio, parlando a bassa voce. Eravamo soli, senza visite guidate, e in quel genocidio della memoria almeno la magia selvaggia del luogo si svelava. La torre era l’ossario dei prigionieri austroungarici della Grande Guerra. Erano stati portati lì in quindicimila e la metà era morta di stenti e dissenteria. Qualcuno era di Trento, altri di Trieste, la mia città. Parlavano italiano ma morirono egualmente come mosche. L’ingresso era chiuso. La decisione di sbarrarlo era stata presa dopo il furto di un teschio, messo poi in vendita su Internet. Andammo a vedere le docce, dove era avvenuta la disinfestazione degli “stranieri”, direttamente allo sbarco. I ferri suonavano al vento come corde di un pianoforte scordato. Il tetto era semicoperto di finocchio selvatico, il molo scintillava di quarzo e fiorellini vibranti nel maestrale. Spaventai una coppia di tortore, inciampai nella rete di una branda, mi impigliai in una ragnatela. Poi, sazi di silenzio, togliemmo l’ormeggio col vento che declinava. Finimmo all’ancora verso Fornelli per sorso di vino, all’ora dei calamari.
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