
Ci sono voci che ti perseguitano, altre che ti rimangono dentro. Per sempre. Bruno Pizzul era la voce della speranza, della voglia di vincere con la Nazionale italiana di calcio. Era la certezza di esserci tra un passaggio e l’altro, tra un cross ed un “quantunque” gettato prima di un fallo laterale. La voce di Bruno Pizzul era la geometria del calcio. Si giocava con un tre cinque tre e l’ultima punta era la sua voce. Siamo stati attaccati a quella tonalità severa, rotonda, aspra, come un cross apparentemente andato male, come una palombella sbilenca, con la raucedine che si contorceva tra la competenza e la passione. Era stato anche giocatore di calcio, un discreto centromediano, e la sua carriera si concluse a seguito di un infortunio al ginocchio. Diventò regista del coro di telecronisti, dove le punte di diamante erano rappresentate da Ameri e Ciotti, ma lui aveva il compito, forse più difficile, di accompagnare, con la voce, le immagini di una partita che poteva diventare l’apoteosi o la dannazione. Sempre misurato, ironico, bravo, attento alle sfumature. Era stato premiato al premio giornalistico della Sardegna, organizzato dall’associazione Genera, a Castelsardo. Sarebbe dovuto venire a ritirare il premio, ma il ginocchio lo tradì all’ultimo momento. Ci fu un collegamento e la sua voce inconfondibile inondò la piazza del borgo medievale. Era la voce di un pezzo della nostra vita, dopo Martellini. Era la visione di un gioco che, forse, è diventato afono. Soprattutto senza di lui.