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In carcere si muore più soli.

In carcere si muore più soli.

Diceva il grandissimo De André: “Quando si muore si muore soli”. Ho sempre pensato che questa fosse una grandissima verità. Lo pensavo nei miei passaggi tardo-adolescenziali, imbottito di Pavese ed Hemingway; lo penso ancora adesso perché è comunque una grande verità. Che necessita di un corollario: “Quando si decide di morire, di togliersi la vita, in quel momento si è terribilmente soli”.

Perché, diciamocelo francamente: il suicidio è una scelta. Per quanto assoluta, per quanto assurda, per quanto vigliacca, per quanto egoista, è comunque una scelta. Si recide con tutto e con tutti, si livella la storia, si appianano i ricordi, si decide, con un colpo, di spegnere la luce. Il suicidio è un fatto personale, un gioco tra se stessi, una lotta terribile tra lo sgomento che lasci agli altri — gli amici, i parenti, e gli amori — e la forza indicibile di essere, per un attimo, padrone della tua vita, di essere l’unico compositore che decide come si conclude la commedia.

Morire, in fondo, non ha quasi mai un finale che ognuno di noi sceglie. Può essere melodrammatico, insignificante, eroico, casuale, sfortunato, ma quasi mai siamo noi gli sceneggiatori. La nostra vita, che in qualche modo disegniamo con un certo impegno, pennelliamo con i nostri sogni e le nostre contraddizioni, ha una fine che non scegliamo. È l’unico film di cui non conosciamo il finale. E quando arriva, non lo possiamo neppure raccontare.

Perché allora c’è sempre qualcuno che decide di finire, di concludere questa parentesi, questo passaggio? Cosa sa del dopo? Cosa sa del durante? Cosa passa in quegli attimi? Ci sono spiegazioni che provano a raccontarci medici, psicologi e letterati. Nessuno ha chiaramente una risposta. Quando ci si uccide si è terribilmente soli. Questo è il punto.

In carcere, poi, questa scelta è ancora più drammatica, più misteriosa. Si decide così, senza lasciare nessuna traccia della propria scelta. Anzi, sono proprio quelli apparentemente più tranquilli a decidere il passaggio. Ricordo il mio primo impatto con il suicidio. Era il 1985. Un ragazzo fragile e con un sorriso opaco e sua moglie minuta e dolcissima. Aveva parlato con lei e si erano salutati. Al colloquio, lui le aveva portato delle margherite raccolte nella diramazione di Campu Perdu. Lei, quelle margherite, le strinse lungo tutto il viaggio sulla Cantiello. Nessuno poteva immaginare che suo marito aveva deciso di uccidersi. Proprio quel giorno. Mentre lei viaggiava verso Porto Torres. Dopo le margherite.

Ecco, ad ogni suicidio in carcere si riapre un’antica ferita, e mi appaiono quelle braccia che stringono piccole margherite. Quando ci si abbraccia, ci si sente sempre molto vicini, ma non si riesce a misurare il vero calore della vita.