Tutti si chiedono, si domandano, provano a spiegare, a cercare il bandolo della matassa e, soprattutto, trovare un colpevole. Perché quella donna ha potuto avere i propri figli in carcere? Per quale motivo in un paese come il nostro ci sono ancora bambini che subiscono la detenzione insieme alla madre? Non si era parlato, una volta, di Istituti a custodia attenuata, di quell’esperienza di Milano? Possibile che ci sia questa leggerezza, questa terribile faciloneria nell’amministrare la giustizia?
Speriamo che la Magistratura faccia piena luce di ciò che è accaduto ieri in carcere a Rebibbia dove una madre, di nazionalità tedesca, in carcere per spaccio internazionale di sostanze stupefacenti, ha gettato la propria figlia di pochi mesi dalle scale uccidendola e ferendo seriamente il secondo.
Le accuse, da più parti, sono contro il “sistema penitenziario”, cattivo, ignavo e cinico.
Stupisce che al coro di queste accuse si siano uniti, insieme alla solita canea di “specialisti facebucchiani” anche alcuni giornalisti e stupisce, davvero, che l’articolo di “La Repubblica” firmato da Federica Angeli contenga un errore davvero “grossolano”.
Provo a raccontarla in maniera semplice.
La legge del 1975 (l’ordinamento penitenziario) prevedeva che i bambini sino a tre anni potessero stare all’interno del carcere insieme alla madre. Una condizione forse terribile, affrontata da tutti gli operatori dei penitenziari in maniera davvero dignitosa.
Ho visitato molti nidi in molti istituti carcerari italiani e ho sempre notato una variegata e bellissima umanità divisa equamente tra detenute, poliziotte, operatori del trattamento (educatori, assistenti sociali) e volontari.
Verso gli inizi del 2000 a Milano, con un protocollo di intesa firmato dalla provincia e dal carcere di San Vittore, si è sperimentato un tentativo rivoluzionario: una Istituto a custodia attenuata per madri detenute al di fuori del carcere (un edificio di proprietà della provincia) dove non c’erano delle sbarre, i bambini potevano giocare in un giardino, le stanze erano colorate e le poliziotte non indossavano la divisa.
Quando lo visitai mi resi conto che quella era, con una buona dose di coraggio e dignità, la strada da intraprendere e percorrere. A seguito di quella prima esperienza in altre regioni si tentò di aprire degli ICAM e anche in Sardegna si decise per questa scelta che cadde su una vecchia casa mandamentale (un piccolo carcere dove dormivano i semiliberi e ormai in disuso) a Senorbì, un piccolo paese alle porte di Cagliari. Fu una bella esperienza dove tutti parteciparono con creatività ed interesse: si scelsero i letti coloratissimi, le luci soffuse, la cucina con i fornelli ad induzione, il giardino con i personaggi di Walt Disney a fare da contorno ed una bellissima ludoteca con molti giocattoli e un enorme materasso gonfiabile.
Il 21 aprile 2011, lo Stato promulgò la Legge n. 62, tuttora in vigore, con la quale modificava il codice di procedura penale e in alcune parti l’ordinamento penitenziario recependo l’idea che i bambini, in quanto bambini, in quanto innocenti, non potevano vivere in carcere. Quello che non si capisce è perché dal 2011 ad oggi (sono passati ben sette anni) quella Legge è poco e male utilizzata.
La giornalista afferma che la normativa è un paradosso in quanto “per le donne condannate con i figli minori è possibile scontare la pena in strutture differenti dal carcere insieme ai piccoli, chi invece attende una sentenza non ha questo diritto” .
Non è vero.
Proprio l’articolo 1 della Legge (basta cercarla su un motore di ricerca, non è difficilissimo, purtroppo non si trova su facebook) recita che “quando imputati (e quindi non condannati) siano donna incinta o madre di prole di età non superiore a sei anni con lei convivente, ovvero padre, qualora la madre sia deceduta o assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole, non può essere disposta né mantenuta la custodia cautelare in carcere, salvo che sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza.” A decidere di mandare la donna (o l’uomo) in una casa a custodia attenuata per detenute madri è il giudice (comma 3 dell’articolo 1) che “può disporre la custodia, ove le esigenze cautelari di eccezionale rilevanza lo consentano”.
La legge aveva previsto davvero tutto e tutelato le madri (e i padri) e i bambini in qualsiasi condizione giuridica, anche se semplicemente imputate, come nel caso della madre che ha commesso il folle gesto a Rebibbia. Se quella donna era da venti giorni in carcere è perché il Giudice aveva deciso per quella custodia e non altra in quanto, secondo quanto rilevato dal fascicolo processuale sussistevano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza”. Chiaramente non entro nel merito della decisione del Giudice che ritengo assolutamente legittima.
Mi vengono in mente alcune piccole considerazioni, che sono poi le stesse evidenziate anche nel caso di Stefano Cucchi:
- Prima di esprimere qualsiasi giudizio nel merito occorre conoscere dei fatti di cui si parla;
- Se non si conoscono è necessario informarsi e verificare le fonti (in questo caso bene avrebbe fatto la giornalista di Repubblica a leggersi almeno il primo articolo della Legge 21 aprile 2011, n. 162)
- E’ facile giocare nell’accusare le istituzioni che soffrono insieme agli operatori che ci lavorano: troppo semplice dire che il carcere non funziona, che è disumano, che tutti sono aguzzini. Non è così: bisogna viverle quotidianamente le situazioni e verificarle. Negli asili nido, dove sono presenti i bambini, ho visto una bellissima umanità da parte soprattutto delle poliziotte e dei poliziotti penitenziari che hanno dimostrato la loro sensibilità di genitori e di professionisti;
- Le Leggi in questo paese esistono e, come in questo caso, a volte nascono da intuizioni felici della società civile o da esperienze di operatori che conoscono specificamente il problema. E’ chiaro che poi è il Giudice a dosare ed effettuare le scelte. La custodia attenuata non è un carcere, ma è pur sempre presidiato da poliziotti penitenziari.
Mi diceva una poliziotta, in servizio presso l’Icam di Milano che mai e poi mai una mamma abbandonerebbe il proprio figlio per darsi alla fuga. L’unica evasione che vi era stata era scaturita da un episodio che, rivisto con l’esperienza, non si sarebbe più ripetuto: il bambino era stato dato in consegna al padre e lei, la mamma, sicura che il cucciolo fosse in mani sicure, ha deciso di evadere.
E’ difficile, oggi ragionare su questo episodio, doloroso, intimo, complesso. Anche qui camminano nello stesso solco l’emozione e la burocrazia e anche qui, come nel caso di Cucchi, ha vinto la seconda.
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Bambini senza sbarre (sardegnablogger, 19 settembre 2018) | Giampaolo Cassitta – Giampaolo Cassitta
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