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Il sogno di Fabio Aru (La Nuova Sardegna, 27 luglio 2017)

Adesso che tutto è finito, che le salite sono diventate un lungo serpente addormentato tra i campi di lavanda e i Pirenei, che quel rumore silenziosissimo delle biciclette è stato sostituito dalle auto che disegnano curve meno poetiche, adesso che l’adrenalina è sparita, possiamo dircelo: non è stato un semplice avvenimento sportivo questo Tour de France ma è stato, grazie a Fabio Aru, il Tour di un fresco campione d’Italia con il caschetto bianco e i quattro mori ben evidenziati. Fabio doveva partecipare al giro d’Italia che partiva, proprio in occasione del suo centenario,  dalla sua Sardegna, quella terra che lo accompagna da sempre e per sempre. Ma una rovinosa caduta lo aveva bloccato e quel giro se lo è visto da casa, sulla poltrona. Al Tour non ci doveva andare, c’era già stato lo scorso anno ed era rientrato a casa con qualche ferita nell’anima e con la consapevolezza che la bicicletta è un po’ come la vita: non sai mai come sarà la prossima curva che incontrerai, in quella strada che non finisce mai. Proprio quando era arrivato alla fine, quando si intravvedevano le luci di Parigi ci furono le montagne di Morzine a decretare una cocente sconfitta, subendo un distacco di quasi diciassette minuti: un’eternità. Si sale e si scende, si frena, si prova a ripartire. Come nella vita. Quella vita che ha disegnato curve e lunghi rettilinei e che Fabio ha saputo interpretare con tenacia e con orgoglio forse un po’ figlio di quella terra che di curve ne ha forse troppe, di questa terra disegnata tra il silenzio e il mare e che non ha quelle salite vere, impossibili, ad oltre duemila metri. Fabio Aru, dopo un periodo dedicato al ciclocross, si trasferisce a Bergamo ed incontra le montagne, quelle vere. Decide di aggiungere alla sua storia i serpenti che si arrampicano tra le vette che in Sardegna ce le sogniamo e non riusciamo neppure ad immaginare. Adesso che tutto è finito capiamo qual è stata la bravura e la forza di un campione: non vincere perché quello, tutto sommato, riescono a farlo un po’ tutti prima o poi, ma esserci. Questo è stato il Tour de France di un campione italiano con il caschetto dei quattro mori bene in vista: un tour vissuto da protagonista. Perché non è facile vincere una tappa da quelle parti, nell’Alta Saona, sulla salita che porta a La Planche des Belles Filles, dove negli anni precedenti vinsero Chris Froome e Vincenzo Nibali. Non è facile vestire la maglia gialla dopo uno scatto di 400 metri della prima tappa pirenaica, non è facile continuare per due giorni con quel giallo intenso addosso e quel caschetto con i quattro mori sempre in bella vista. Arrivare quinto a poco più di tre minuti dal vincitore non è facile: è un’impresa per un ragazzo che nel 2015 ha vinto la Vuelta di Spagna e quest’anno è diventato campione d’Italia. Lui che veste con orgoglio quella maglia tricolore alla quale aggiunge il caschetto con i quattro mori. Dobbiamo essere grati a Fabio Aru che ci ha fatto riconciliare con il ciclismo, uno sport che ha attraversato momenti cupi, che ha conosciuto l’onta del doping, ma che negli ultimi tempi pare ritornato a quelle origini che disegnarono tra le strade del mondo le imprese di Girardengo, Coppi, Bartali, le fughe di Anquetil, di Eddy Merckx, Indurain, Gimondi, Adorni, Moser, la forza del primissimo Pantani. Fabio ha saputo osservare tutto questo, è riuscito ad essere tutti questi grandi campioni senza somigliare a nessuno in particolare. E solo quando riesci ad essere te stesso puoi salire su una bici e pedalare, cambiare i rapporti in base ai tuoi pensieri, alla tua forza, alla volontà e alla passione. Quel giro d’Italia partito dalla Sardegna senza di lui è stato, paradossalmente,  il punto di partenza e dentro l’attimo che si è presentato ha vinto prima il campionato italiano con forza e determinazione e poi è andato in terra di Francia a giocarsela. Da protagonista. C’è un passaggio fondamentale in questa piccola leggenda dei giorni nostri che fa di Aru un campione: è quel sapersi raccontare sempre con un sorriso, sempre con la determinazione di uno che ha le idee abbastanza chiare, di uno sportivo che oltre a partecipare ha imparato anche a vincere. E a farci sognare. Fabio Aru: il cavaliere con i quattro mori ricamati addosso.  Come una curva, come una salita, come una meta definita ma non definitiva. Non si finisce mai di correre e di pedalare dentro questa strada chiamata vita.