Racconti dell’Asinara. Quando in carcere arrivò Zola. (Sardegnablogger 9.5.2017)
C’è un aneddoto legato alla famosissima partita giocata dai detenuti dell’Asinara nel 1986 con la Torres di Zola (partita da me ampiamente raccontata nel libro “supercarcere Asinara”) e che riaffiora adesso tra i ricordi di tanti cassetti pieni e dai quali, di tanto in tanto, attingo. Si tratta della formazione che avrebbe dovuto contrastare quella squadra che avrebbe raggiunto la serie C e venduto successivamente Gianfranco Zola al Napoli. All’Asinara, a quei tempi, si giocava un campionato tra “diramazioni” con tanto di coppe per la classifica marcatori, disciplina, miglior giocatore, miglior portiere e migliore promessa. Era un campionato serio e appassionato dove tutti i detenuti si impegnavano. Da quelle classifiche uscì fuori la formazione da mettere in campo, con qualche sorpresa. Io non ero un allenatore vero e proprio e in questo caso fui solo un “selezionatore” tenendo presente però alcune regole che nel calcio giocato non esistevano. Quelle regole erano dettate, oltre che dal buonsenso, anche dall’ordine e della sicurezza e dal maresciallo che, chiaramente, non voleva “rogne”. La rosa dei convocabili doveva pertanto passare al vaglio del Direttore e del comandante degli allora agenti di custodia. Vi era, in realtà, la richiesta di alcuni agenti che sponsorizzavano i propri detenuti e soprattutto il Brigadiere Spanu che avrebbe diretto la partita suggeriva nomi ritenuti degni di contrastare la squadra della Torres. Su alcuni nomi non c’erano problemi. Erano bravi, giocavano bene, sapevano correre e conoscevano il concetto di “squadra”. Altri erano legnosi, non troppo svelti ma garantivano corsa continua. Poi c’erano quelli che, seppur bravi, non potevano e non dovevano giocare. Uno era un terzino destro piuttosto tecnico e l’altro un’ala sinistra con una visione di gioco davvero egregia. Ma avevano un piccolo difetto: appartenevano alla diramazione di Fornelli, due ergastoli alle spalle ed erano, rispettivamente: uno il braccio destro di Vallanzasca e l’altro un killer al soldo di Cutolo. Un pasticcio. Chiaramente li infilai nella rosa e ne parlai preventivamente con il direttore il quale, seppure con qualche riserva, comprese che, in fondo, si trattava di una partita di calcio e quei due potevano giocarsela. Il comandante era chiaramente di un altro avviso e, per dirla con un eufemismo, era sinceramente contrariato, tanto che minacciò di non partecipare alla manifestazione dove erano stati invitate molte Autorità, Prefetto e Procuratore Generale compresi. Era difficile giungere ad un compromesso che il direttore tentava di ottenere tra me che predicavo la possibilità di riscatto per tutti ergastolani compresi e il Maresciallo che, invece, riteneva quei detenuti assolutamente improponibili e giocava, furbescamente, un’altra carta: “Possibile che non ci siano detenuti di buona condotta che possono sostituire questi due pericolosi individui?”. I detenuti c’erano e sul punto aveva anche ragione. Il problema era un altro: da selezionatore ero diventato quasi allenatore e l’idea di perdere malamente la partita era messa nel conto, ma non di andare al massacro. “Ci servono entrambi, per far bella figura”, affermavo ben sapendo che questa linea non sarebbe stata vincente. Passavano i giorni, i detenuti si allenavano, si provavano gli schemi e quei due, davvero, dimostravano di essere quasi indispensabili. Cominciai a lavorare “ai fianchi” del maresciallo e riuscii a portare dalla mia parte alcuni agenti e il Brigadiere Spanu, persona autorevole molto ascoltata dal maresciallo. Si arrivò ad un compromesso non troppo giusto ma che serviva alla causa: i due detenuti avrebbero giocato la partita ma non avrebbero partecipato, per ragioni di sicurezza, al pranzo organizzato con i giocatori e le autorità nella mensa della diramazione centrale. I due detenuti la presero bene e, seppure con qualche rammarico, accettarono quello che ritenevano fosse un buon accordo: in ogni caso avrebbero giocato la partita. La Torres, qualche settimana prima aveva battuta il Benevento per 6 a 1. Una vittoria rotonda che divenne la nostra linea Maginot: come allenatore non avrei sopportato un risultato peggiore, come educatore chiedevo rispetto per le regole del gioco e come uomo raccomandavo di non “picchiare” troppo gli avversari che, ricordavo ai ragazzi, erano professionisti e quella era solo una partita amichevole.
La partita finì 4 a 1 e fu davvero un successo. L’unico gol lo segnò Tammaro, un diciannovenne siciliano con un passato burrascoso alle spalle. I due detenuti ergastolani giocarono benissimo e il terzino riuscì a contenere – anche se non eccessivamente – Gianfranco Zola. Il pullman era pronto per portare ospiti e giocatori in centrale e riportare i due esclusi a Fornelli. Ne parlai, sommessamente al Magistrato di Sorveglianza e il Dr. Mario Esposito disse, quasi perentoriamente: “Non se ne parla proprio, anche loro vengono a mangiare con noi”. Davanti a quell’affermazione nessuno riuscì a controbattere e il maresciallo mi guardò piuttosto infastidito ma non disse nulla. Il pranzo fu, probabilmente, la cosa più bella della giornata. Fotografie, abbracci, richieste di autografi e qualche commento sulla partita. In quel momento uno dei giocatori della Torres si alzò e disse: “Sono molto felice di essere stato qui a giocare questa partita. Però, se devo dirla tutta mi aspettavo giocatori più duri. Quel terzino – e indicò proprio l’ergastolano – aveva quasi paura di contrastarmi. Sono convinto che sia una persona che potrà uscire al più presto e dimostrare che questa è stata solo una brutta parentesi.” Il terzino, ergastolano e pluriomicida non riuscì a contenere le lacrime e rispose in maniera impacciata: “Il problema è stato l’educatore. Ci ha detto che non dovevamo toccarvi ma che non potevamo perdere con uno scarto di sei gol. Diciamo che se tu segnavi il quinto cominciavano le botte”.
Ci fu una risata generale e anche il maresciallo, senza farsi vedere, non trattenne il sorriso.