Menu

27 giugno 1980: Ustica. La strage

Il 27 giugno 1980 un aereo cadeva dai cieli di Ustica. Morirono 81 persone. Questo racconto utilizzato per il mio lavoro teatrale Anime in panchina,  è per non dimenticare.

Dove volano le parole?
Questo il titolo del convegno. Molto bello. Molti occhi umidi che si intrecciavano, che scrutavano lessici contrapposti e a volte irraggiungibili. Aquile con sguardi lontani si annidavano negli appunti dei giornalisti che avrebbero probabilmente scritto pagine importanti per questo piccolissimo convegno nella sala Universitaria di Bologna. Perché Bologna è la pancia degli umori, è l’accoglienza calda che ti aspetti, perché Bologna sono i portici e gli studenti e le biciclette con i docenti, professori in camicia bianca che scampanellano alla vita, cani che passeggiano sicuri di un’esistenza calda, amica.  Perché Bologna ha colori tenui che intrecciano gli umori e rispolverano rumori antichi che ti senti dentro il corpo quando cammini e osservi e respiri quell’essere così italiano che in Sicilia, davvero, non si sente.
Ritorno a casa. Preparare la valigia con cura perché è con cura che si fanno certe cose. Con piccole certezze che si materializzano. Il dentifricio, lo spazzolino, la camicia per il giorno del convegno – azzurro mare – quella della sera – azzurro cielo, cielo siciliano – quella del giorno successivo – azzurro intenso, quello degli occhi di Eloisa , dei suoi entusiasmanti occhi. Che sorridono a qualsiasi avvenimento.
Lei non parla.
Mica è necessario.
E non sente.
Perché, dentro i ritagli della vita a volte – o molte volte – è meglio non sentire.
Eloisa è lo sguardo immacolato di una cicogna che si è posata sul nostro tetto una sera di novembre quando, con infinito orgoglio dicevo a tutti: “Aspetto una bambina, sta per arrivare.”
“E chi te la porta?” chiedevano tutti, come si usa chiedere ai bambini. Con tenerezza.
Avrei potuto rispondere che nasceva sotto il cavolo o sulle ali di una farfalla ma mi piaceva, almeno così pensavo il 27 giugno 1980, che a portarla fosse una cicogna. Con il classico lenzuolo bianco annodato sul becco e con un volo stanco e lieve avrebbe planato sulla nostra città in una giornata gonfia di mare e di vento, almeno a Novembre. Così è Marsala e la Sicilia e le isole in genere. Intrisa di mare e di vento. La cicogna si sarebbe accasciata davanti al nostro piccolo giardino a ridosso del mare, nei pressi della fabbrica della Florio, quella del marsala che tutti assaggiano e dicono con semplici sguardi compiaciuti: “Ma non sa di uovo”.
Certo che non sa di uovo, il marsala è cosa altra. E’ colore e densità, umore che si sprigiona e balla dentro il sole della nostra terra, ambrata e dura, sapore forte di alcool che si imprigiona e che si accovaccia dentro botti centenarie e aspetta. Il marsala è vita che cammina, che scruta la passione e cementifica il palato, lo trasporta velocemente verso altri piccoli settori a centellinare il piacere. Il marsala non ha voce e non ha il sentore delle parole. Ma è viva, terribilmente viva e pulsa. Come Eloisa. Arrivata con la cicogna mentre Giuseppina sosteneva che Eloisa crescesse dentro la sua pancia e io la guardavo come si guarda una donna incredibilmente soffice e lieve e le toccavo il suo pancione sorridendo.
“Qui o c’è un’anguria o stai ingrassando.”
E mi dava i pugnetti sul viso e sulla schiena e diceva che dentro c’era Eloisa che la sentiva e che scalciava e che non vedeva l’ora che nascesse per vederla correre e vivere e urlare dentro il nostro mare e dipingere tramonti color marsala invecchiato e fischiare ai cani e dormire distesa su un’erba che appassiva al sole della Sicilia.
Eloisa, la mia anguria portata con la cicogna.
Questi erano i miei ricordi il 27 giugno 1980 quando arrivai all’aeroporto per il mio volo verso Palermo Punta Raisi. Dolce serata che si accavalla al ricordo di Eloisa che cammina e si muove e guarda, osserva. In silenzio. Il suo silenzio. Immenso, immaginifico, inarrestabile. Per me inarrivabile. Per Giuseppina insostenibile.
Forse la cicogna ha sbagliato giardino o l’anguria non era del nostro orto. Ma perché dentro questa vita rumorosa doveva planare Eloisa?
Perché Eloisa è sordomuta.
Dalla nascita.
Da quando la cicogna ce l’ha consegnata e l’anguria dalla pancia di Giuseppina è scomparsa velocemente, come un vento secco.
Dal giorno, dal sei novembre 1979, abbiamo abbracciato dune in un deserto silente, che ci contempla e sorride ma non emette nessun rumore.
Perché le parole hanno suoni che non comprendiamo. Questo pensavo. Perché un cinese o un australiano o un congolese mica lo capiamo. Sono solo rumori astratti e se vogliono abbracciarci lo fanno con le parole dei gesti. Che sono sempre quelli, in ogni centimetro di terra.
Dove volano le parole?
Come il titolo del convegno. E nessuno ha coniato risposte rassicuranti. Tutti ha scartabellato proposte, enucleato supposizioni, colorato teoremi. Ma io, che alle parole do un peso minore, sentivo solo il rumore del silenzio. Un silenzio assordante che mi incatenava l’anima.
Era quello di Eloisa e del suo piccolo grande mondo. Dove la cicogna non avrà un nome né il cane e neppure il coccodrillo e non ci saranno le canzoni, dove non si potrà canticchiare quella con il primo amore, del primo bacio, della sconfitta e della vittoria, dove non si potrà urlare che abbiamo vinto o abbiamo perso ne potremo dire mai “ti amo”. Solo gesti e odori. Un mondo a metà. Forse un po’ più dilatato. Ma se imparasse a scrivere? Allora il rumore potrebbe liquefarsi e prendere nuova forma e Eloisa potrebbe raccontare che cosa sente e come si può raccontare.
Hanno chiamato il volo.
Ottantuno persone, compreso l’equipaggio. Chissà perché ci contano. Non l’ho mai capito. Eloisa non sentirebbe l’ultima chiamata “La signorina Filippi è pregata di presentarsi all’uscita uno per l’imbarco immediato”. Perché il nostro è un mondo basato sull’immediatezza. Che non pesa le parole. Altrimenti ci saremmo comportati in maniera diversa.
Un mondo acquario, gonfio di silenzi.
Ecco quello che Eloisa vive e vorrebbe condividere mentre osservo l’assistente di volo che ci prepara al decollo e muove le mani in corrispondenza delle uscite di emergenza e poi a destra e in alto e mostra il fischietto e il salvagente sotto la poltrona.
E nessuno sente. Proprio in quel momento capisco che le parole volano nel vuoto e non le incontriamo perché così è stato deciso.
Nessuno ascolta il controllore di volo perché nessuno prende mai in considerazione che quello che dice ci possa, in qualche modo servire. Lo osserviamo come si guarda un mimo, un mimo buffo che muove le mani e fischia e fa gesti inconsulti, patetici. Ecco dove volano le parole, tra Bologna e Palermo in una notte immacolata dove dentro questo cielo colorato di notte ci siamo solo noi.
Eloisa sorride ai gesti. Quelli li capisce e saprà riempirli di vocali e consonanti. Giuseppina non ci crede e osserva sempre con il lato sinistro quell’anguria che viveva dentro la sua pancia.
“E’ tutta mia,” dice. “Eloisa è come se vivesse ancora dentro me. Che naviga nella placenta. A non sentire e a non parlare. A sorridere soltanto.”
Eloisa crescerà. Di questo ne sono certo e crescerà con i miei gesti. Questo dicevano al convegno oggi. I vostri cari hanno bisogno di gesti. Come trovarsi davanti ad un giapponese al centro di Piazza Navona che vi chiede informazioni come si può raggiungere il Vaticano. E il professore, gonfio di gestualità, ha mimato fino a farci sorridere tutti i passaggi che da piazza Navona accompagnavano il nostro cinese verso Corso Vittorio – le dita che si muovono come per trottare ragazzi e poi svoltare a destra ed ecco un ponte disegnato con l’indice come se fosse un arcobaleno e il fiume due mani che si muovono come se suonassero una tastiera impazzita, eppure il Tevere è sempre molto tranquillo, come Roma e la sua gente, infine ancora indice e medio che si muovono sul ponte e via della conciliazione i due medi delle due mani ad indicare grandi candele su una strada lunga e il disegno della cupola con una punta al centro e l’ellisse del sagrato del Bernini con le colonne indice e medio che si muovono in maniera vorticosa in verticale. Ecco, i giapponesi arriveranno da Piazza Navona a San Pietro grazie ad Eloisa. Sarà una grande interprete. Di qualsiasi lingua.
Le parole volano alte dentro questo cielo scuro e l’aereo gira, tra qualche minuto atterreremo. Piccole luci dentro un mare che non si vede ma so, con certezza che c’è. E proprio sotto di noi, sotto quelle piccole luci di Ustica. Stiamo per arrivare. Soli, in questo cielo immenso. Senza parole da regalare e con gli occhi il bagliore di Eloisa e Giuseppina e un bagliore che sembra un fuoco, una luce immensa che si avvicina. E non abbiamo più parole. Mi allaccio le cinture di sicurezza. Partiamo. E il buio si fa fitto. Senza parole.

Questa storia non ha un nome. Forse volutamente. Ho pensato a qualcuno in particolare ma mi piaceva l’idea che tutti da Luigi, ad Alberto, a Giuseppe, Arnaldo, Giacomo, Claudio, Giovanni, Gaetano potessero essere i protagonisti di questo pezzo di vita. Perché ho sempre immaginato che l’impatto con il missile (perché di questo si tratta) sia stato devastante, folgorante e abbia unito nella morte tutti. Nello stesso momento. Ed ecco che tutti, a questo punto, immaginano lo stesso percorso e rimangono senza parole.

15:39 , 27 Giugno 2015 Commenti disabilitati su 27 giugno 1980: Ustica. La strage